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08/05/2023
L'Europa non abita a Parigi
In questo quadro di tensioni interne fra i paesi europei è difficile pensare che si otterranno nei prossimi mesi risultati su alcuni obbiettivi all’ordine del giorno.

L’attacco del Ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin al governo Meloni compiuto a freddo e apparentemente per caso, proviene, invece, da una logica che viene da lontano. Sbaglia chi ritiene che l’”incidente” sia scaturito dall’incipiente clima per le elezioni europee del prossimo anno che farebbe fibrillare la esigua maggioranza intorno al presidente Macron o chi, ne minimizza la portata, riducendolo agli ambiziosi orizzonti dell’incauto esponente del governo che sarebbe proiettato a più alti incarichi nelle prossime presidenziali. Bene ha fatto il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani a sottolinearne la gravità, annullando il previsto incontro con l’omologa d’oltralpe. Le dichiarazioni sulla “incapacità” italiana nelle politiche migratorie sono “piovute”, non troppo casualmente, mentre era in corso l’incontro del premier con il generale libico Khalifa Haftar, “uomo forte” della Cirenaica. Si trattava di una missione importante con un interlocutore inevitabile, non solo preparata, da parte italiana, per affrontare la questione “calda” dell’arrivo, nei primi quattro mesi dell’anno, di oltre 10 mila persone provenienti dalla zona controllata dall’autoproclamato “Esercito nazionale libico”, ma anche in prosecuzione di una azione importante della politica estera del nuovo governo, volta a recuperare un ruolo strategico per l’Italia nel bacino mediterraneo. Nei mesi scorsi, infatti, oltre a recarsi in Libia e in Egitto, il premier Meloni, aveva condotto positivamente un rilancio dei rapporti dell’Italia con l’Algeria, riproponendo non solo nel nome, quel piano Mattei (definito “un grande italiano”) che, a suo tempo, oltre ad aiutare il Paese nel suo sviluppo produttivo, gli aveva fatto conseguire, nell’importante ambito delle risorse energetiche, un peso decisivo nelle relazioni internazionali. Rispetto ad allora, la stessa Meloni aveva prospettato uno spazio ulteriore. Trasformando l’utilità dovuta alla necessità di sottrarsi alle importazioni energetiche dalla Russia, nella possibilità, per l’Italia, di realizzare, in prospettiva, un hub energetico per l’intero continente europeo. A gennaio ad Algeri era stata esplicita: ”C’è la possibilità, in un momento difficile per l’Europa sugli approvvigionamenti, di fare dell’Italia la porta di accesso, l’hub fondamentale di distribuzione dell’energia”.

Aggiungendo l’intento di “rafforzare la collaborazione”, anche “nel campo politico e culturale”. Lo ha riconosciuto, scrivendo su Aspenia a marzo, Lapo Pistelli – già vice ministro degli Esteri con Matteo Renzi, ora manager di Eni – “gli accordi firmati a più riprese dai governi Draghi e Meloni in Algeria, Libia, Egitto consentono oggi all’Italia di alzare l’asticella della propria ambizione”, precisando: “con gli opportuni investimenti in tutti i paesi fin qui menzionati, il potenziamento se necessario delle pipeline esistenti, la dotazione di un maggior numero di rigassificatori e l’eliminazione delle strozzature esistenti nel trasporto da sud a nord del Paese, l’Italia non solo può garantire al meglio la propria sicurezza energetica, ma può legittimamente candidarsi a diventare un pezzo della più grande sicurezza europea, a patto di indurre Bruxelles ad accoppiare la tradizionale prospettiva nord-sud con quella sud-nord”. Figuriamoci! Queste considerazioni e prospettive si scontrano con la logica politica della Francia. La verità è che, come ha scritto Stefano Montefiori sul Corriere della Sera, “il ministro francese … si trova immerso in una cultura politica che tradizionalmente sembra considerare l’Europa come una sorta di grande Francia”. Gli sgradevoli accenti di Darmanin, peraltro, sono l’ulteriore segnale di una entente che neppure il recente Trattato del Quirinale riesce a far decollare seriamente. Non si riesce a superare quei limiti che, negli scorsi anni hanno condizionato anche importanti accordi economici: non si è rivelata equilibrata la fusione Fca-Peugeot che non ha giovato alla produzione degli stabilimenti italiani, mentre permane una asimmetria tra Fincantieri e i Chantiers de l’Atlantique per interferenza del governo francese che ne ha impedito la piena acquisizione. In buona sostanza, Parigi continua a non considerare gli interessi strategici dell’Italia, anzi arriva ad agire in direzione contraria, come dimostrò, senza alcun dubbio, l’intervento in Libia nel 2011 contro Gheddafi ad opera di Nicolas Sarkozy del quale Darmanin è stato, a suo tempo, portavoce, poi passato alla “scuderia” di Macron. Con tutte le nefaste conseguenze per le quali l’Italia e l’Europa subiscono instabilità e nuove e rischiose influenze politiche nel Mediterraneo. Permangono nella considerazione della politica francese una mentalità e una cultura imperiale, cioè “una attitudine radicata” che, poi si risolve in un neonazionalismo rispetto all’Europa.

I tentativi diplomatici per evitare l’invasione della Russia in Ucraina condotti solo personalmente da Macron, il recente viaggio a Pechino con la Von der Leyen, ridotta ad accompagnatrice, le critiche verso la Nato e l’invito agli europei a “non essere più vassalli degli Usa”, hanno il sentore di una tessitura per difendere un presunto primato di Parigi in Europa che, purtroppo, negli anni, l’asse con Berlino ha finito per avallare. C’è meno Europa nella politica di Macron di quanta ce ne fosse con Da Gaulle che, a modo suo, proponeva, comunque, una idea differente che non trovò condivisione, cioè l’Europa delle Nazioni. La visione dell’Europa dell’attuale presidente francese viene sempre dopo gli interessi strategici di Parigi; il seggio nel Consiglio di sicurezza dell’ONU non è mai stato interpretato in una visione europeista e il privilegio nucleare, che Parigi si tiene ben stretto, punta di diamante della force de frappe, impedisce di costruire un comando strategico militare europeo integrato. E in proposito, ricordare la responsabilità per il fallimento della CED offrirebbe una ulteriore conferma, seppur assai lontana nel tempo. In questo quadro di tensioni interne fra i paesi europei, di cui lo strappo tra Parigi e Roma rappresenta solo un episodio, è difficile pensare che si otterranno nei prossimi mesi risultati su alcuni obbiettivi all’ordine del giorno come la riforma del Patto di Stabilità e Crescita o la possibilità di estendere le decisioni con voto di maggioranza sugli obbiettivi e non solo sulle modalità per realizzarli, cioè un netto ridimensionamento del criterio dell’unanimità che si propone da parte di alcune stati su materie importanti come la fiscalità e, ancor più delicate , come la politica estera e di sicurezza. A questo punto solo il voto europeo che si svolgerà nella primavera del 2024, rappresenta lo snodo decisivo sul quale si costruiranno la nuova rappresentanza parlamentare e la Commissione europea chiamata a governare l’Europa per 5 anni e dal cui esito complessivo potrebbero nascere nuovi equilibri. Sarà difficile prima del voto adottare decisioni importanti. Tuttavia sarà necessario che emerga, al di là dei possibili nuovi assetti, una diversa consapevolezza. La logica funzionalista, che ha caratterizzato il progetto e la costruzione europea, con le sue luci e le sue ombre, deve far posto, in ogni singola nazione, all’idea che le sfide di oggi e la fine della pace, possono essere affrontate adeguatamente solo se l’Europa diviene una comunità di destino. Superando una volta per tutte le divisioni e le logiche nazionaliste.

Pietro Giubilo




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