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27/04/2023
Il 25 aprile, per non dimenticare
Il trauma che per alcuni giovani e per molti anziani risultò l’ultimo atto di un dramma sentito e non imprevisto fu invece per centinaia di migliaia di giovani una svolta di eccezionale portata.

La Resistenza italiana ha un carattere suo proprio che la contraddistingue dalle altre consimili situazioni europee. Esso è dato dall’incontro e dalla convergenza nell’esercito partigiano di uomini di diversa formazione civico-sociale: migliaia di antifascisti — anziani e giovani che già avevano. acquisito un preciso orientamento politico e s’eran dati un embrione d’organizzazione ancor prima del 25 luglio — si trovarono fianco a fianco con decine di migliaia di giovani che, fino all’8 settembre, avevano compiuto con disciplina e con valore il loro dovere nell’esercito, nella marina, nell’aviazione. E’ questo un punto su cui è opportuno sottolineare, a mo’ d’esempio, alcuni dati concreti, perché viene di solito trascurato dagli storici. Un lungo elenco di persone che non riguarda solo ufficiali superiori di carriera. e potrebbe continuare per decine di pagine. Esso dà l’idea di quale trauma sia stato per le giovani generazioni l’agosto-settembre 1943. Il trauma che per alcuni giovani e per molti anziani risultò l’ultimo atto di un dramma sentito e non imprevisto fu invece per centinaia di migliaia di giovani una svolta di eccezionale portata, presentita o preavvertita in termini di mesi, non di anni. Eppure questa confluenza di anziani e giovani antifascisti con le masse dei giovani che entrarono nella Resistenza in settembre e poi sempre più s’infittirono nei mesi seguenti, questa confluenza si compì in Italia — e non solo in Italia, ma anche fra gli italiani combattenti in Grecia e in Jugoslavia e fra i prigionieri nei campi di concentramento — senza urti violenti, senza scosse rilevanti, nel segno dell’unità nazionale contro lo straniero occupante e contro i pochi suoi adepti neo-fascisti. Fu uno dei tanti fenomeni cosiddetti all’italiana, che non si spiegano se non con la fantasia, l’ingegnosa intuizione, lo spirito d’adattamento alle situazioni nuove create dalla storia, propri del temperamento italiano. L’On. Paolo Emilio Taviani sottolineava nel 1986, un carattere singolare consistente nella molteplicità dei fronti precisando che la guerra partigiana fu al tempo stesso «souterraine» e guerriglia e la guerriglia fu di montagna, di collina, di campagna, di città, dove ben di rado si determinarono linee di demarcazione delle zone controllate, instaurando delle vere e proprie «repubbliche partigiane», in Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto e Friuli: i partigiani costituivano un esercito di 300 mila uomini, con ancor più numerosi sostenitori e aderenti, che agiva, interveniva, colpiva dovunque, con successi e insuccessi, infliggendo perdite al nemico in uomini e mezzi, ma subendone anche i contraccolpi e le repressioni in campo o nei luoghi di tortura e di sterminio migliaia di vittime.

La «guerre souterraine» comportava la clandestinità, le false identità dei suoi protagonisti o, più spesso, le doppie identità, ma la «guerre souterraine» s’intrecciava anche con la guerriglia. Nelle città del Nord si ebbero esempi clamorosi d’un tale groviglio di situazioni. In alcune università - ancora nel giugno del 1944 - parteciparono agli esami degli studenti che già militavano nella guerra partigiana attiva. I più fra di loro avevano già preso parte a vere e proprie azioni di guerra armata in città e alcuni addirittura in montagna. Episodi analoghi si verificarono negli ospedali e in altri luoghi di lavoro. Fu dunque la guerra partigiana in Italia una guerra dei cento fronti: ed è questa la ragione principale per cui, a distanza di oltre quarant’anni, è difficile, per chi non l’abbia vissuta, comprenderla e «vederla» nella sua concreta vicenda quotidiana. Alla domanda di quale poteva essere il frutto della Resistenza, Taviani confermava che il più importante fu che la libertà venne conquistata dal nostro popolo, con la sofferenza, il sacrificio, l’olocausto. «Più della servitù temo la libertà portata in dono», insegnava Mazzini. Ma va sottolineato purtroppo spesso dimentica della pace il contributo alla vittoria alleata dei partigiani e del Corpo Armato di Liberazione fu determinante affinché De Gasperi riuscisse a evitare ben più gravi mutilazioni territoriali di quelle, pur gravi, che per la sconfitta dovremmo subire. E' difficile, se non impossibile, fare la storia con i se. Ma possiamo pur dire che, se non ci fosse stata la Resistenza, i confini sarebbero oggi — a est, a nord, a sud e sui mare — diversi da quelli in cui s’identifica l’unità nazionale della Patria italiana. Da qui si spiega che sia stata così diffusa, generalizzata la partecipazione alia Resistenza italiana di tanti cattolici — giovani, anziani, laici ed ecclesiastici, vescovi, parroci e ordini religiosi senza la pretesa di alcun monopolio, come ben dire che l'apporto dei cattolici, pur non essendo da solo sufficiente, è stato tuttavia insurrogabile e decisivo. Fu una partecipazione tanto diffusa e generalizzata, perché il nemico non era un qualsiasi straniero; erano i nazisti, con il loro totalitarismo, il razzismo, il paganesimo.

La Weltanschauung, la dottrina, il sistema, i metodi, la realtà di vita quotidiana rappresentavano quanto di più lontano si sia mai avuto o si possa immaginare rispetto alla civiltà cristiana. Parlare di paganesimo è ancora poco; il nazismo fu la perfetta antitesi del cristianesimo. Militanza armata, cospirazione, servizi ausiliari, collaborazione attiva e passiva con gli alleati, sabotaggio, assistenza spirituale e materiale, silenzi complici e sofferti: nei reparti e nei comandi partigiani, nelle squadre di città e nei CLN, in ogni ambiente di città o di campagna, la Resistenza ebbe con sé sacerdoti, pastori, suore, e un’innumerevole schiera di uomini e donne di professata fede cristiana. Lottavano non solo contro l’occupazione straniera e i suoi servi, ma anche e soprattutto contro l’idea pagana e anticristiana di cui i nazisti erano spavaldi e sfrontati portatori. Ecco allora perché riteniamo utile riproporre ai nostri lettori e soprattutto ai giovani una rimeditazione di quei fatti memorabili, in una chiave che ha perduto con il passare degli anni, ma anzi ripropone incessantemente — e sia pure in un clima molto più disteso e assai meno rischioso — le stesse scelte di allora, fra un «essere o non essere», della nostra democrazia, che abbiamo il dovere di difendere e rafforzare con estrema attenzione e instancabile vigilanza. Questo d’altronde è il prezzo della libertà, che non vive di forza propria, ma va continuamente alimentata nel crescere e nell’ampliarsi di una cultura della democrazia che deve essere sempre alla base della nostra esperienza politica. E’ in questo senso che riteniamo non superfluo né accademico questo ricordo di una lontana avventura di popolo, rivissuta attraverso la testimonianza personale di alcuni suoi grandi protagonisti.

Gilberto Minghetti




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