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16/03/2023
'È mio dovere trovare delle soluzioni per proteggere i giovani'
Marco Biagi aveva compreso come e quanto le trasformazioni dell’economia avrebbero influito sui rapporti di lavoro e si era accostato al mondo dell’occupazione con l’occhio di chi cerca delle soluzioni.

A 21 anni dalla morte di Marco Biagi, i tratti di quella tragedia sono evocati in questa ricorrenza nelle tante frasi pronunciate nei vari incontri pubblici e istituzionali con l’obiettivo di dedicare un momento particolare a quella vita spezzata dalla ennesima violenza, con conseguenze che si ripercuotevano sulla sua famiglia dove risiedeva con la moglie Marina, i due figli, allora Lorenzo solo 13 anni e Francesco agli inizi degli studi universitari della facoltà di Giurisprudenza. Il Prof. Marco Biagi era un uomo libero che ha sempre detto quello che pensava. Non era legato in particolare ad una parte, si sentiva libero di dire quello che gli sembrava giusto. Ha avuto il coraggio di esporre le proprie idee. Era consapevole che la società si stava trasformando e che un lavoro per tutta la vita, lo stesso a tempo indeterminato, sarebbe stata una cosa praticamente impossibile, sarebbe arrivata tardi nella vita delle persone. Aveva in mente che bisogna difendere i lavori brevi. “Purtroppo, ci sarà questa precarietà - diceva Marco - però dobbiamo renderla una precarietà protetta, fare in modo che le persone che non hanno un lavoro protetto abbiano anche dei diritti, siano protette, che una persona non trovi solo un lavoro in nero”. Marco Biagi non era l’inventore della precarietà. Era un giurista colto, attento osservatore di quanto accadeva nel mondo, che aveva compreso come e quanto le trasformazioni dell’economia avrebbero influito sui rapporti di lavoro. E si era accostato al mondo dell’occupazione (a cui i giuslavoristi tradizionali guardavano con sufficienza e ostilità come se si trattasse di una devianza rispetto a ciò che era sempre stato e tale doveva restare immutato nel tempo) con l’occhio di chi cerca delle soluzioni, propone delle regole in grado di rispondere alle esigenze delle imprese e di indicare delle tutele per i lavoratori.

Oggi si parla di «potare» i cosiddetti contratti atipici (a termine, lavoro a chiamata, staff leasing, lavoro accessorio, a progetto, ecc.) come se fossero la causa della diffusa precarietà, mentre potrebbero servire – se correttamente applicati – a favorire l’occupazione in quanto rivolti a regolare esigenze specifiche difficilmente riconducibili a modelli contrattuali forzatamente standard (o come si dice adesso «prevalenti»). A sentire certi settori i problemi dell’Italia non sarebbero più l’alto livello di disoccupazione giovanile, il numero elevato di persone che non studiano, non hanno un lavoro e non si preoccupano neppure di cercarlo e neanche l’occupazione irregolare. È la precarietà il «male assoluto», come se bastasse scardinarne l’impianto, mediante una scorciatoia normativa, per poter risolvere anche la questione della disoccupazione. Si parla addirittura di «precariato» come se si trattasse di una classe sociale, di un vero e proprio status ha preso il posto di quel «proletariato» protagonista della storia nelle ideologie del secolo scorso. L’MCL lo ricordò particolarmente nella S. Messa durante il viaggio in Terrasanta nel 2012 (celebrando il 40° di Fondazione) e oggi vuole reinterpretare il suo pensiero come se si volesse dimostrare che il professore bolognese non si era mai sognato di patrocinare quelle soluzioni riguardanti i nodi difficili del mercato del lavoro che erano al centro delle polemiche in quel maledetto 2002.

È pertanto comprensibile che la rivalutazione di Marco Biagi sia tanto più pressante oggi che nel dibattito sui problemi del lavoro, suscitano, più o meno, le medesime conflittualità del tempo trascorso, con i protagonisti del dibattito in materia quando in comune portano la tensione al cambiamento, all’evoluzione del diritto del lavoro, non solo per adattarlo alle mutate condizioni dell’economia e della moderna produzione, ma perché sempre più effettiva divenga la tutela e la valorizzazione della persona nell’ambito del lavoro con l’esercizio di uno spirito critico, la capacità di guardare oltre e di cercare soluzioni al di là di schemi ideologici. Il carattere universalistico dello Stato sociale deve essere garantito non solo per ragioni etiche, ma anche perché la coesione sociale e la diminuzione delle diseguaglianze distributive giovano alla crescita economica. Il quadro tracciato nel presente a distanza di oltre venti anni, il pensiero di un indimenticabile “ maestro “ va assimilato all’editoriale pubblicato postumo da “Il Sole 24 ore “ - che rimane il suo testamento: «Vado avanti nonostante il pericolo e le minacce perché sento che è mio dovere trovare delle soluzioni per proteggere i giovani». Grazie Marco.

Gilberto Minghetti




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