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12/03/2023
Ombre sulla rivoluzione digitale
Nel quadro della competizione internazionale con la Cina sull’innovazione, l’Occidente potrebbe trovarsi in difficoltà.

La notizia è di quelle che a volte anticipano avvenimenti destinati a segnare una svolta importante. Le autorità Usa chiudono la Silicon Valley Bank, la banca delle startup tecnologiche. Dopo la crisi finanziaria si tratta del più grande fallimento di una banca che ha in pancia 209 miliardi di dollari di asset. Il secondo della storia del sistema bancario degli Stati Uniti. Quindi non cosa da poco. Ma fa riflettere, soprattutto, il fatto che questo istituto di credito diffuso in Europa, in Asia e in Israele, offra servizi finanziari all’ecosistema delle start-up. In sostanza, questo fallimento appare come l’effetto di una crisi di liquidità di queste società che vivono sulla tecnologia digitale che ha determinato un incremento dei prelievi, incremento che la banca non è riuscita a soddisfare vendendo i suoi depositi in titoli del Tesoro che, nel frattempo, avevano ceduto valore per l’aumento dei tassi - dallo 0 al 4,5 per cento - deciso dalla Fed, la banca centrale statunitense. Non ci sono elementi decisivi per valutare se questa vicenda, che ha prodotto timori per il settore tech, sia l’inizio di una deriva economica più ampia che investirebbe il settore dell’innovazione tecnologica, strategico per gli Stati Uniti. In sostanza, nel quadro della competizione internazionale con la Cina sull’innovazione, l’Occidente potrebbe trovarsi in difficoltà e vedere il profilarsi all’orizzonte un quadro geopolitico, innestato dalla guerra in Ucraina, non più sostanzialmente favorevole. Giulio Tremonti su La Verità individua “nei meccanismi della finanzia rilanciati dopo la crisi del 2008 … una componente crescente di rischio”. C’è indubbiamente da essere preoccupati per quel fenomeno di finanziarizzazione dell’economia e della politica a debito che, in mancanza di regole, potrebbe far precipitare l’economia occidentale. Oltre a questi aspetti riguardanti la condizione finanziaria di questo comparto tecnologico, gli eventi chiamano in causa anche l’indirizzo ultraspecialistico dell’innovazione informatica, cioè quella “rivoluzione digitale” che si presenta sempre più con i connotati di una ideologia.

Jacque Attali, tra l’altro ispiratore di molte idee del presidente francese Macron, già nel 1992 scrisse che l’impatto della rivoluzione digitale “sarà più simile alla scoperta del fuoco da parte degli uomini primitivi, poiché preparerà la strada per un salto rivoluzionario verso una nuova era che trasformerà profondamente la cultura umana”. Il digitale non si connota quindi solo come un progresso di tipo tecnologico, ma come un radicale cambiamento del modo di vita. Vittorio Possenti sottolineava lo scorso maggio su Avvenire come tale sviluppo abbia creato una situazione che “è scappata di mano” in quanto “la ragione digitale … mira a prendere il posto della ragione integrale e a spazzar via il mondo comune ed il sensus communis” ed è “impresa indispensabile” non “sottomettersi alla dittatura dell’io digitale”. Si va costruendo, poi, a motivo della crescente esigenza di sicurezza per le azioni terroriste e per il diffondersi di epidemie, una “cultura della sorveglianza” che, come ha ben analizzato Alessandro Colombo (“Il governo mondiale dell’emergenza”), sta portando in primis negli Usa, ma anche altrove, ad un “sistema di porte girevoli tra aziende tecnologiche, agenzie di sicurezza e governo, ma soprattutto , attraverso la crescente interdipendenza tra le agenzie di intelligence e le imprese della Silicon Valley, in virtù della quale le prime si affidano sempre più alle seconde per raccogliere informazioni”. Ciò è stato esplicitamente riconosciuto dall’ex direttore dell’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Michael Mc Connell (“una partnership efficace con il settore privato è necessaria perché l’informazione si muova rapidamente dal pubblico al privato… I ruoli di governo e privati si fanno sempre più sfumati”). Questi aspetti che riguardano, oltre al controllo sociale, la stessa condizione antropologica, si aggiungono alle preoccupazioni per le ricadute sociali dello sviluppo digitale, esaminate, tra gli altri, di recente, da Leonardo Becchetti in un editoriale del quotidiano della Cei, dal titolo significativo “Per non ridurci tutti a schiavi”. Osserva, il professore di Tor Vergata, come “i benefici dell’aumento di produttività si siano concentrati nelle mani dei proprietari delle nuove tecnologie”. In sostanza oltre agli effetti sociali che potrebbero essere contingenti della cosiddetta “disoccupazione tecnologica”, siamo di fronte a una questione di “distribuzione del reddito e della ricchezza prodotta”, oltre che di un più complessivo digital divide.

Come ormai è sempre più frequente, sono le parole di Papa Francesco ad esprimere preoccupazione, a gennaio di quest’anno, di fronte agli stessi vertici di Microsoft e Ibm, in Vaticano, nell’incontro per la redazione del documento “Roma Call for Al Etics”: “Si tratta di vigilare e di operare affinché non attecchisca l’uso discriminatorio di questi strumenti a spese dei più fragili e degli esclusi”. E’ auspicabile che la sorpresa per la crisi finanziaria che si affaccia sul comparto tech porti a riflettere, in chiave più complessiva, sulle prospettive della rivoluzione ad esso connessa. Come ha rilevato Gabriele Balbi in un recente saggio (“L’ultima ideologia”) sull’argomento:” Crediamo ( credevamo) davvero che la rivoluzione digitale ci salverà, che sia la strada migliore per arricchirci, per stare meglio, per vivere in società migliori, per comunicare in maniera più efficiente”, che essa fosse, cioè, un orizzonte logico per il nostro sviluppo, per concludere, invece, che non si tratta di “una costruzione naturale”, ma di una prospettiva “pazientemente forgiata dalla convergenza di interessi … cui l’idea di rivoluzione serve per giustificare le proprie azioni e, in fin dei conti, giustificarsi: giustificare investimenti, scelte e politiche industriali, la stessa esistenza sul pianeta terra come essere umani che si connettono (digitalmente) con altri”. Siamo di fronte ad una ideologia autoreferenziale, frutto di un assetto di potere non solo economico, in una connessione con il deep state, lo “stato profondo”, per connotare una sorveglianza sociale, con l’ambizione di cambiare o di sostituirsi alla realtà (Metaverso) ed alla stessa ragione (Intelligenza Artificiale) o al lavoro intellettuale e di ricerca (ChatGPT). Forse i tempi potrebbero, addirittura, essere maturi per una “etica degli algoritmi”. Le ombre di carattere finanziario che si allungano in questi giorni negli Stati Uniti sul comparto tech, potrebbero sollecitarci ad ascoltare con più attenzione le preoccupazioni, anche autorevoli, che da tempo chi inducono a chiedere alle istituzioni culturali, alle rappresentanze politiche e a quelle sociali, di compiere ogni sforzo per contribuire a mantenere determinante il fondamento umanistico della società nella quale viviamo.

Pietro Giubilo




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