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04/02/2023
L’inflazione sta scendendo
Secondo i dati dell’Istat a gennaio è in calo al 10,9% dal 12,3% di dicembre.

La preoccupazione che assilla i policymaker in giro per il mondo riguarda il lasso di tempo necessario per ricondurre il tasso d’inflazione sui livelli obiettivo. Secondo dati recenti sembra che ciò possa accadere anche in modo relativamente veloce. L’incertezza però è sul fatto se il tasso d’interesse reale tornerà ai livelli ‘bassi’ precedenti la fiammata inflazionistica o se si stabilizzerà su livelli elevati. Considerata l’importanza della differenza tra il tasso d’interesse reale e la crescita reale del Pil. Come sarà? Positiva o negativa? Queste al momento sono le due domande più importanti che si pongono i policymaker. Visto che una crescita del Pil superiore all’interesse reale consentirebbe di stabilizzare la crescita del debito pubblico nei singoli paesi che si è gonfiato per far fronte alle ricadute economiche negative della lotta alla pandemia. Sul fronte italiano secondo i dati dell’Istat l’inflazione a gennaio è in calo al 10,9% dal 12,3% di dicembre. Resta ancora molto alta ma la direzione è quella giusta. Su questo blog abbiamo sempre sostenuto che l’inflazione è al momento il problema principale dell’economia e va contrastata a tutti i costi dalle Banche Centrali e che se teniamo conto della lezione degli anni settanta, il sacrificio in termini di perdita di Pil sarà minore. Quando un’economia è colpita da uno shock d’offerta come è avvenuto negli anni ‘70 del secolo scorso e attualmente l’inflazione segnala che alcune risorse sono divenute scarse e questo ha un effetto negativo attraverso un aumento dei costi di produzione delle imprese che viene trasferito sui prezzi dei beni e servizi finali. La conseguenza: una perdita di potere di acquisto dei salari. Con un rischio. Lo shock iniziale potrebbe innescare una spirale tra prezzi e salari.

Visto che i lavoratori tentando di recuperare il potere di acquisto passato chiedono aumenti dei salari nominali che fanno aumentare il costo del lavoro che le imprese trasferiscono di nuovo sui prezzi. Alla contrattazione successiva il processo si ripete. L’aumento dei tassi non sarà un problema, a condizione che l’inflazione inizi a diminuire. Hanno torto coloro che sostengono che l’inflazione non è un problema e che fa bene ai conti pubblici. Se dovesse persistere, infatti, verrebbe pienamente incorporata nei tassi d’interesse nominali e la spesa per interessi presto lieviterebbe: annullando il momentaneo effetto benefico sul debito pubblico. L’inflazione abbatte il debito in rapporto al Pil in termini reali solo se è inattesa. In caso contrario si riflette in una maggiore spesa per interessi e in un peggioramento dei conti pubblici. L’aumento dei tassi non sarà un problema se soprattutto si pone attenzione alla crescita economica. Le Banche Centrali rispondono al loro mandato; spetterebbe agli Stati combattere l'inflazione da costi con una adeguata politica fiscale, che riduca gli incrementi di prezzo delle fonti energetiche e aumenti salari e retribuzioni riducendo il cuneo fiscale o la contribuzione (ma la coperta è corta, purtroppo); certamente non rialzando le accise sui carburanti, che come noto hanno un effetto pervasivo a valle sui prezzi di tutti i beni e servizi che hanno i carburanti tra gli input produttivi. Negli Stati Uniti la ricetta sta funzionando. Dai dati diffusi in questi giorni, infatti, emerge che la Fed sta riuscendo a ridurre gli investimenti raffreddando l’inflazione di fondo: tenendo su i consumi e preparando un atterraggio morbido.

Marco Boleo




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