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18/02/2022
Non è solo questione di metodo
E' necessario recuperare la cultura del confronto civile e della stessa solidarietà nazionale

Il difficile passaggio della elezione del Capo dello Stato ha accelerato un problema politico che già riempiva i pensieri dei partiti: la riforma della legge elettorale. Un tema che divide le forze politiche e che non le vede compatte neppure al loro stesso interno. Le opzioni non sono poche. Chi, con logica realista, vorrebbe lasciare le cose come stanno che sono un mix tra maggioritario e proporzionale; chi si schiera per quest’ultimo con o senza correttivi; chi desidererebbe una riforma più vasta, magari proponendo il doppio turno e ampliando il numero dei collegi uninominali, sostanzialmente come il modello francese. Si aggiunge la richiesta, partita con una raccolta di firme, per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica che non sarebbe un vero e proprio presidenzialismo, ma così viene presentato. Qualcuno ricorda come Matteo Renzi, in una delle sue prime esternazioni da leader del Pd, pensava che il primo ministro dovesse diventare una sorta di “sindaco d’Italia”, eletto direttamente, come dire un semipresidenzialismo, anche se un po’ mascherato. C’è ancora molta confusione sul tema del metodo elettorale per le elezioni politiche, sul quale sarebbe buona norma, nel caso di cambiamenti, cercare un consenso ampio, tentando anche di evitare che le regole mutino a pochi giorni dalla scadenza della legislatura. A gettare un po’ di scetticismo sulle intenzioni dei partiti è, di recente, un intervento dell’autorevole Lorenzo Ornaghi che, alle elevate responsabilità accademiche, aggiunse, a suo tempo, quelle governative. “L’innalzamento del livello … della competizione inter-partitica”, ha scritto sul numero di gennaio di Studi Cattolici, “avrà un terreno fertile su cui manifestarsi: quello cioè della modifica … del vigente sistema elettorale”.

“L’esito finale dello scontro sarà determinato in massima parte non già dalle convinzioni e più o meno argomentate discussioni riguardo alla preferibilità o utilità del maggioritario o piuttosto che del proporzionale, bensì dai calcoli di ciascun partito relativamente alle probabilità che il primo oppure il secondo sistema elettorale … rafforzi le prospettive di incremento del proprio consenso popolare”. Questo rilievo di chi osserva la politica dal “di fuori”, fa emergere un dato, non irrilevante, della crisi del sistema dei partiti e cioè che questi non riescono ad elevarsi oltre i limiti del leaderismo personale e dell’ immediatismo. Non vi è dubbio che, in qualche modo, gli aspetti maggioritari dell’attuale metodo elettorale, siano percepiti come gabbie che impongono alleanze tra forze che si rivelano non sempre omogenee ed un esempio evidente lo abbiamo nelle differenti scelte, nell’ambito del centro-destra, per la composizione delle maggioranze costituitesi nella attuale legislatura. Una correzione proporzionale libererebbe da tale “costrizione”, consentendo, secondo le buon intenzioni, confronti ed alleanze che meglio si adatterebbero alle situazioni reali. Il prezzo che si pagherebbe in termini di maggiore frammentazione e non chiarezza a fronte dell’elettorato, viene peraltro minimizzato, con il rilievo che comunque il maggioritario non ha prodotto una vera stabilità e coerenza delle forze politiche. Tuttavia il richiamo del professor Ornaghi rende evidente quanto sia limitato lo sguardo con il quale i partiti valutano la “preferibilita’” di un metodo rispetto all’altro. Non la convenienza per il voto del 2023, ma ben differenti motivazioni dovrebbero orientale la nuova scelta.

Il metodo elettorale determina il peso delle rappresentanze in Parlamento con la conseguente necessità o meno di alleanze parlamentari per affrontare i tempi difficili che si stagliano sull’orizzonte del Paese, segnati da continue emergenze, dalla crescita dell’ indebitamento sempre meno sostenibile, da riforme necessarie e più in generale da una crisi degli assetti democratici e da diseguaglianze sociali che la globalizzazione sembra rendere ineluttabili. E quale sarà il progetto con il quale le forze politiche intenderanno affrontare tutto questo? Con un assetto di governo che potrebbe scaturire da un sistema elettorale che, come si usa dire, la sera stessa del voto possa mostrare chi ha vinto, oppure con un esecutivo frutto di accordi successivi in sede parlamentare non per costruire formule politiche effimere, piuttosto per realizzare una solidarietà nazionale che superi o stemperi le instabilità e le asprezze che, come si è visto nel percorso dello stesso governo Draghi, sembrano continuamente riemergere? E’ questo l’orizzonte o, meglio, il bivio che si presenterà per la vera scelta del metodo elettorale: maggioritario o proporzionale. Non sarà una scelta tecnica e neppure più immediatamente politica, ma dovrà misurarsi con una prospettiva che non esitiamo a definire storico-politica. Ma, riprendendo l’articolo del professor Ornaghi, qual è oggi il panorama che abbiamo di fronte? Esiste oggi nei partiti “una capacità di apprendimento... rispetto ai cambiamenti in atto nella società e alle mutate aspettative di larghe quote di cittadini”?

O questi, “man mano che il vecchio cemento ideologico si è andato sgretolando...si sono decomposti in un conglomerato di gruppi e fazioni il cui tasso di reciproca avversione - precariamente velata in prossimità delle elezioni - riesce a eguagliare o superare quello dei raggruppamenti partitici fra loro contrapposti”? Ed allora, se la scelta del proporzionale intende essere decisa sulla base di motivazioni alte e non per mere esigenze di sopravvivenza o per “aggiungere posti a tavola”, si rende necessario recuperare la cultura del confronto civile e della stessa solidarietà nazionale, che furono il portato del cattolicesimo popolare e mettere da parte, una volta per tutte, la delegittimazione dell’avversario politico, il frontismo di ogni tipo e quel continuo risorgere di conflittualità politica che ha colpito al cuore la prima e la seconda repubblica e, forse, la stessa condizione civile e istituzionale della democrazia italiana, senza più guide politiche, dopo la tragica ed emblematica perdita dell’ultimo suo grande tessitore, autorevole e libero, Aldo Moro. Quanto più ci addentriamo nel tempo di una crisi che potrebbe mettere a dura prova la stessa sopravvivenza dell’Italia, come protagonista dello stare in Europa, emerge la grande incompiuta, cioè la conclusione del cammino che porterebbe alla definitiva realizzazione di quella coscienza unitaria nazionale che dal Risorgimento fino ad oggi si è tentato di conseguire pienamente e, senza la quale, questo “diletto” Paese non troverà né pace, né stabilità, né ulteriore futuro.

Pietro Giubilo




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