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10/02/2022
Aumenti dei prezzi, calma e gesso
Nei prossimi anni l’impatto degli aumenti del prezzo dell’energia potrebbe lentamente diminuire

Prima di addentrarci nell’analisi dell’inflazione che sta accompagnando la crescita economica, al di qua ed al di là dell’Atlantico, dopo la caduta generalizzata del Pil provocata dal contrasto della pandemia, bisogna comprendere bene il fenomeno che abbiamo di fronte: sia a livello definitorio che a livello di percezione da parte di coloro che impattano con essa. Col termine inflazione viene indicato un aumento del livello generale medio dei prezzi di beni e servizi in un determinato lasso di tempo che genera una diminuzione del potere di acquisto della moneta. Va da sé che un aumento dei prezzi solo di una tipologia di beni e servizi ed una tantum non è inflazione. Mentre la percezione dell’inflazione da parte di una buona fetta della popolazione è errata. Ad esempio soltanto la metà dei francesi ed il 30% degli italiani capiscono il meccanismo dell’inflazione ed il concetto di reddito reale e quello di rendimenti reali derivanti dal possesso di attività finanziarie. Detto ciò passiamo ai dati sulla variazione dei prezzi che stanno destando preoccupazione. Secondo le stime dell’Istat più aggiornate (nel paniere per misurare la variazione dei prezzi tra gli altri sono entrati i tamponi, il saturimetro, la friggitrice e la sedia da personal computer), a gennaio l’inflazione in Italia è salita del 4,8% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Un aumento, che non si registrava dall’aprile 1996, e che è stato causato soprattutto dai rincari dell’energia, ed in misura minore dei beni alimentari. Secondo l’Eurostat, invece, l’aumento dell’inflazione nell’Eurozona è stato del 5,1%, contro aspettative poste a 4,4%. Un livello più alto di queste ultime, che mette sotto pressione l’azione della Banca centrale europea. Al netto di alimentari ed energia, invece, flette al 2,3% tendenziale, da 2,6% di dicembre. Le attese erano però per una decelerazione al 2%.

In Italia nel contempo resta stabile a + 1,5%. Mentre negli Usa, la stessa inflazione, definita ‘core’  sempre a dicembre è stata del 5,5% annuo. Questa misura, che vede depurati gli effetti transitori, e che indica se effettivamente si sta verificando un rialzo generalizzato dei prezzi sta avendo andamenti diversi nei vari paesi. In Italia e in Europa è più o meno sotto controllo (inferiore all’obiettivo storico della BCE del 2% per l’Italia, un po' sopra per l’Eurozona), mentre negli Usa è a valori da due a tre volte e mezzo superiori e relativamente elevati in senso assoluto. Una prima conclusione che possiamo trarre da questi dati è la seguente: sebbene gli Usa e l’Eurozona sperimentino rialzi elevati dei prezzi dei prodotti energetici, solo negli Stati Uniti vi è un’inflazione vera e propria, ovvero che interessa tutti i beni e servizi, e quindi più riconducibile alle politiche fiscali espansive finanziate con deficit di bilancio da parte delle Amministrazioni Trump-Biden. Alla luce di ciò, risulta finora corretta anche la posizione diversa che la Federal Reserve e la BCE stanno assumendo: ovvero restrittiva la prima (rialzo dei tassi di interesse), attendista la seconda. Ma una domanda dobbiamo porcela: va bene, l’inflazione vera e propria è comparsa solo negli Usa, ma questo rialzo dei beni energetici che comunque interessa anche se a livelli diversi le due più grandi aree economiche del pianeta: perché si è verificato? E soprattutto per quanto tempo durerà? Le cause del rialzo dei prezzi energetici alla fine dei conti sono essenzialmente tre e derivano da uno stimolo eccessivo della domanda aggregata (consumi più investimenti) e da una spinta dei costi. Ma vediamo meglio. La prima è legata a doppio filo alle politiche di stimolo e di sostegno (almeno di dieci trilioni di dollari in giro per il mondo), senza precedenti, finanziate in deficit, che hanno fatto sì che la domanda globale di beni e servizi nel 2021 esplodesse quasi contemporaneamente in ogni dove e provocasse il rialzo dei prezzi dei beni maggiormente interessati da questo boom indotto e quindi l'energia in primis.

La seconda causa arriva, invece, dal lato dell’offerta. Offerta di beni e servizi che nell’arco di un anno avrebbe dovuto adeguarsi alla maggiore domanda, contribuendo così a raffreddare l’inflazione. Questo però ancora non si sta verificando. La ragione possiamo rinvenirla nelle diminuzioni dei prezzi dei combustibili fossili avutesi nel 2014 e nel 2020. Questi crolli repentini dei prezzi, assieme alle prospettive di una diminuzione strutturale della domanda che all’epoca si prevedeva potesse esserci per la transizione dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili, hanno portato le aziende produttrici  di ‘fattori energetici’ a non investire in nuovi impianti. Una su tutte, l’abbandono delle estrazioni dello ‘shale oil’ negli USA: l’olio succedaneo del petrolio ottenuto dalla frammentazione delle rocce.  Contrariamente alle aspettative però nel 2021 la domanda è esplosa, e l’offerta di fonti energetiche ha avuto difficoltà ad assecondarla. L’effetto è stato che l’offerta ha potuto adeguarsi alla maggiore domanda solo in modo parziale ed incompleto, aumentando così le pressioni al rialzo dei prezzi, invece, di contribuire al loro raffreddamento. La terza causa del rialzo affligge infine in via preponderante i paesi occidentali ed ha a che fare proprio con la transizione verso fonti “verdi”: stiamo parlando della carbon tax. Il meccanismo è abbastanza semplice e tutto sommato interessante da esaminare: come abbiamo detto la domanda è aumentata. L’offerta ha cercato di stare al passo ma senza riuscirci completamente. Ma una maggiore offerta, che comunque c’è stata anche se insufficiente, all’atto pratico e stante l’attuale composizione delle fonti energetiche che ricordiamo è ancora a maggioranza fossile, ha comportato una maggiore emissione di CO due che a sua volta ha fatto scattare la carbon tax. Provocando così un ulteriore aumento del prezzo dell’energia.

Riassumendo abbiamo in questo modo che la causa del rialzo del prezzo dei beni energetici è dovuta alla sommatoria di tre componenti fondamentali: la domanda eccessiva, l’offerta insufficiente e la tassa verde. Ora resta da chiedersi: per quanto durerà siffatta situazione? In realtà l’analisi appena compiuta ci porta ad essere tutto sommato moderatamente ottimisti. Da un lato, infatti, l’eccesso di domanda dovrebbe prima o poi ridursi, visto che i governi che attualmente stanno stimolando di più l’economia non potranno reggere questo ritmo di spesa per molti anni a venire. Dall’altro, l’offerta prima o poi si adeguerà alla domanda aumentando la sua produzione. Questo purtroppo significa, soprattutto per i paesi meno sviluppati, l’aumento dell’estrazione e dell’uso di fonti energetiche molto “inquinanti”, quali il carbone, che non a caso sta vivendo proprio in questo periodo un boom nel suo utilizzo. Infine per l’occidente, se continuerà il processo di aumento della produzione di energia da fonti verdi e rinnovabili, di qualsiasi natura esse siano, l’impatto della carbon tax diminuirà, nel corso del tempo eliminando quella componente dal prezzo del prodotto finale. Questo ci dice peraltro che non è completamente vero che stiamo pagando un prezzo alto dell’energia per colpa della transizione ecologica. Il prezzo è alto per la sommatoria di tre motivazioni diverse, nelle quali la componente legata alla transizione ecologica diminuirà nel tempo proprio grazie alla transizione stessa.

Il risultato finale dovrebbe essere quindi che nei prossimi anni l’impatto degli aumenti del prezzo dell’energia potrebbe lentamente diminuire, riportando così la situazione verso una normalità fatta di prezzi magari più alti, ma comunque non molto distanti da quelli precedenti l’attuale crisi. E l’inflazione vera e propria, ovvero quella che colpisce tutti i beni e servizi e che oggi vediamo soprattutto negli Usa, che fine farà? Anche quella dovrebbe raffreddarsi nel tempo, perché l’Amministrazione Biden prima o poi dovrà ridimensionare lo stimolo fiscale e perché la Fed alzerà i tassi d’interesse riportando l’economia verso un sentiero di crescita più contenuto, e meno impattante sui prezzi. Ovviamente infine, tutto questo discorso è valido in questo momento e con le politiche monetarie ed economiche attuali.  Ma in futuro, se i governi dotati di sovranità monetaria dovessero iniziare a monetizzare gli enormi deficit e debiti pubblici accumulati, ecco che lo scenario sopra ipotizzato di un rientro dell’inflazione potrebbe essere completamente diverso. In quel caso insomma l’inflazione potrebbe divenire una tassa con la quale si sarà deciso di finanziare i deficit ed i debiti pubblici accumulati (in parziale sostituzione della tassazione ordinaria) per far fronte alle ricadute economiche negative del contrasto alla pandemia da Covid-19. Ma di questo per ora non è dato sapere.

 

Marco Boleo

 

    

 

 

 

 

 

 

 




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