PRIMO PIANO
10/12/2021
Il primo modulo della riforma fiscale del Governo
Una vera riforma dovrà tener conto anche degli effetti sulle scelte di lungo periodo delle famiglie.

La riforma fiscale per il 2022, come annunciato dallo stesso Governo Draghi, almeno per ora non è una vera e propria riforma. La potremmo chiamare pertanto un primo modulo della riforma: con l’utilizzo di 8 miliardi di euro all’anno per cominciare a rendere il nostro sistema fiscale più semplice, più equo e meno oneroso. E’ insomma un aggiustamento, forse parte di un progetto in corso che ancora non si conosce. La questione allora è se si stia andando nella giusta direzione. Parte della triplice sindacale: CGIL e UIL, ritiene di no, ed ha proclamato uno sciopero generale di otto ore il prossimo 16 del mese, per la prima volta dopo 7 anni, per protestare soprattutto contro questo primo modulo. Non spetta naturalmente a noi dire se questo sia uno sciopero giusto o meno. Visto che lo sciopero è un diritto costituzionale che va rispettato, quando viene esercitato entro i limiti prescritti dalla legge. Poi certo, ognuno di noi dovrà valutare lo stato delle cose col proprio discernimento e sulla base dei numeri, che fanno presa meno degli slogan sindacali, ma che aiutano di più a compiere la scelta giusta. Il nostro intento quindi sarà solo quello di aiutare il lettore a farsi un’idea. Proviamo allora a comprendere un po’ meglio. Al solito, dati alla mano. I sindacati in agitazione chiedevano che gli 8 miliardi di euro, finanziati in deficit, fossero stati tutti destinati alla riduzione dell’IRPEF. Il Governo da parte sua ha messo sulla bilancia 7 miliardi su 8 (l’87,5%): destinando il restante miliardo all’IRAP, con l’intento di eliminare l’imposta a circa un milione di piccoli contribuenti (autonomi, ditte individuali, e persone fisiche). I sindacati volevano che i beneficiari della riduzione fossero i lavoratori dipendenti ed i pensionati: alla fine il 95% delle risorse Irpef (6,6 miliardi su 7) sono state destinate a queste categorie. I sindacati auspicavano che i destinatari fossero i primi tre scaglioni di reddito, il 90% delle risorse Irpef è stato loro destinato, cioè ai contribuenti al di sotto dei 55 mila euro annui. Al primo scaglione (i contribuenti sotto i 15 mila euro annui) vengono, invece, destinate il 16% delle risorse. Nello specifico nel primo scaglione ci sono circa 17 milioni di contribuenti. Di questi, 10 milioni non pagano neanche un euro di Irpef mentre tutti e 17, mediamente, pagano 27,78 euro al mese.

A questo punto l’avvocato del diavolo che sta coi sindacati potrebbe obiettare che ci sarebbe stato anche un altro modo per irrobustire le buste paga. Ed ha ragione, infatti, si poteva intervenire non (solo) sul cuneo fiscale (come il Governo ha fatto), ma anche su quello contributivo: cioè diminuendo i contributi obbligatori che vengono trattenuti ogni mese sulle buste paga dei lavoratori, in modo da incrementare il netto della retribuzione. Ma anche in questo caso il Governo Draghi non è stato colle braccia conserte decidendo di utilizzare per il 2022 ulteriore 1,5 mld di euro per ridurre dal 9,19% al 8,39% il cuneo contributivo per i lavoratori a basso reddito. A cui ovviamente si sommeranno i benefici derivanti dalla riduzione dell’Irpef ricordati sopra. Ma il segretario della CGIL Maurizio Landini sostiene che non è equo che chi guadagna 20 mila euro riceva 100 euro in più e chi ne guadagna, invece, 60 mila ne riceva oltre 600. Chi ha ragione? Considerando non solo il beneficio derivante dalla riduzione delle aliquote ma anche quello dall’aumento delle detrazioni (v. Il Sole 24 Ore, 04 dicembre scorso) viene fuori che chi guadagna fino a 20.000 euro avrà un beneficio medio annuo di 193 euro, mentre chi ne guadagna 60.000 uno di 559,8. A prima vista avrebbe ragione Landini ma considerando che una stessa riduzione di tasse di 10 euro non impatta allo stesso modo su chi ne pagava 20 (uguale ad un beneficio del 50%) e su chi ne pagava 1.000 (ovvero un beneficio del 1%) ha ragione il Governo. In termini percentuali si vede meglio: un lavoratore dipendente che guadagna 20.000 euro avrà un beneficio di circa il 25% e chi ne guadagna 60.000, di circa il 3%. Chi sarebbero allora i tartassati che dovrebbero scendere in piazza? A nostro avviso i 2,3 milioni di contribuenti Irpef che guadagnano più di 50.000 euro annui (ovvero poco più di 2.000 euro netti al mese, e oltre) che si caricano da soli il 42% di tutta l’Irpef italiana (ovvero l’imposta netta, al netto del bonus Renzi).

Questa però è la mera ‘aritmetica’ del primo modulo di riforma. Quello che a noi interessa, invece, è analizzare il provvedimento andando oltre i modelli ‘aritmetici’ che quantificano solo gli effetti degli interventi applicando le nuove cifre alle stesse formule, considerando invarianti le scelte attuali delle famiglie. Insomma sono utili perché ci danno una prima e solida indicazione sugli effetti contabili di breve periodo (qualche mese) ma non vanno oltre. Ci torneremo dopo. Nel primo modulo della riforma è positiva la riduzione della tassazione sui redditi bassi e medi. La riduzione da 5 a 4 scaglioni, invece, che potrebbe essere vista come una semplificazione non migliora l’efficienza del sistema fiscale. Continuando a preferire un sistema fortemente progressivo, la scelta migliore sarebbe stata quella di adottare un numero infinito di aliquote, ovvero una curva continua come avviene in Germania piuttosto che scaglioni. Questo perché un sistema progressivo con poche aliquote introduce necessariamente “angoli” con forti disincentivi a cercare lavori con retribuzioni migliori. Nello specifico, superando la soglia dei 50mila euro (lordi) l’aliquota marginale compie un balzo dal 35% al 43%. C’è una stortura nel congegnare un sistema a scaglioni di reddito dove questi ultimi rappresentano fette fisse di popolazione, tra le quali ripartire il fardello fiscale. La ragione che sta dietro questa scelta è che se riduco l’aliquota fiscale dello scaglione 28mila-50mila ed elevo quella dello scaglione 50mila e oltre, allora ho tartassato i secondi a vantaggio dei primi. In realtà le cose stanno diversamente.

La riduzione dell’aliquota sullo scaglione 28-50 avvantaggia, infatti, anche lo scaglione successivo di 50mila e oltre. Quel che è certo è che si scoraggia molto il passaggio dei contribuenti dallo scaglione 28-50mila a quello superiore. Chi attualmente si trova nello scaglione 28-50 mila, infatti, potrebbe valutare l’opportunità di passare allo scaglione superiore con un posto di lavoro diverso attraverso un investimento sul suo capitale umano. Ma non lo fa perché il gioco non vale la candela. Al posto dei modelli ‘aritmetici’ ricordati in precedenza andrebbero considerati quelli ‘comportamentali’ che cercano di tener conto delle nuove possibili scelte delle famiglie (in base agli incentivi fiscali), il problema però è che si basano su tante ipotesi, e danno risultati incerti. Ma vanno considerati perché effettivamente le scelte delle famiglie cominciano a cambiare. In qualche modo, e con cautela, bisognerebbe tenerne conto nelle analisi sugli impatti delle riforme fiscali. In altri paesi europei lo si fa da tempo. Una vera riforma dovrebbe (dovrà) tener conto, infatti, in qualche modo anche degli effetti sulle scelte di lungo periodo delle famiglie. In particolare quelle educative. Certo i motivi per decidere di quanto allungare il curriculum degli studi e della formazione sono molteplici, ma la prospettiva che per ogni 100 euro guadagnati, nello scaglione 50mila euro e oltre lordi, ne restano nella disponibilità solo 57: non sembra un buon incentivo a riempire lo zaino delle competenze e delle conoscenze di nuovi contenuti.

Marco Boleo




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