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17/11/2021
La via stretta dell’Italia e il colle più alto
Non è certo un tempo di “staffette”, ma di un pieno rispetto del senso che i costituenti diedero al settennato presidenziale

Prima di chiederci chi potrà salire al Quirinale, di cui sin troppo di discute anche fuori luogo, si dovrebbe innanzitutto iniziare da una riflessione  sulla condizione del nostro Paese. Ricercare e trovare quello che Antonio Polito sul Corsera ha definito la ricerca e l’impegno sul “metodo in vista del Colle”. Sul piano interno l’Esecutivo è impegnato  a realizzare quelle riforme necessarie, nel breve, per spendere presto e  bene le risorse che stanno arrivando dall’Europa, ma nel contempo e più complessivamente a rendere le nostre istituzioni e le strutture amministrative più adeguate ai tempi che corrono. A livello europeo vi è l’impegno  a ricostruire una posizione che ci veda uscire dall’angolo nel quale  l’asse franco tedesco ci ha  confinato, mentre ed infine, nel quadro occidentale, l’obbiettivo appare quello di  essere nel posto giusto  rispetto all’evoluzione geopolitica che sta correggendo l’ utopia globalista, con il conseguente contenimento della via della seta del presidente Xi Jinping. Complessivamente si tratta di un  percorso  tanto  articolato  e  di non breve periodo, quanto necessario per non rischiare emarginazioni sulla scena internazionale.   E’ un tempo che richiede all’Italia  stabilità politica, coesione nazionale, una transizione (non solo ecologica) senza traumi sociali, una distinzioni precisa tra ciò che appartiene alle risorse inalienabili del Paese  e ciò che può essere sacrificato per tenere il passo con i nuovi paradigmi economici e non solo. Senza contare che con le realizzazioni collegate con i fondi europei si apriranno le importanti partite delle nuove regole sul debito degli stati e il mantenimento di un livello di crescita che consenta di far fronte agli impegni per il rientro dei finanziamenti. Fatalità (o Provvidenza) vuole che a questo punto di svolta si sovrapponga il  passaggio tradizionalmente più significativo delle nostre istituzioni: l’elezione del  Presidente della Repubblica.

Mai come in questa circostanza, anche per il dibattito che va occupando in via prioritaria l’opinione pubblica,  si ha la percezione (in chi ragiona senza disegnini prefabbricati) che il Quirinale sia il luogo istituzionale più influente del sistema politico italiano. Questa constatazione richiama le tesi di coloro che sostengono che per un assetto politico presidenzialista, occorrerebbe  solo eleggere direttamente il Presidente della Repubblica,  bastando i poteri contenuti  nella attuale Costituzione. Tra chi, pur senza risultato,  sostenne questa possibilità, alcuni decenni fa’, vi fu un gruppo di giovani esponenti democristiani, radunati intorno alla rivista Europa ’70, nella quale si trovò anche chi scrive,  definiti “gollisti italiani”, il risultato della cui azione fu “solo” la legge “presidenzialista” per l’elezione popolare diretta del Sindaco che ha ottenuto, comunque, di migliorare la governabilità di quel livello istituzionale. Ai poteri presidenziali, infatti,  appartengono, tra gli altri, le prerogative di sciogliere le Camere,  di presiedere il CSM , il comando delle Forze Armate,   di dare l’incarico  per la costituzione del governo e di nominare i ministri, senza contare il ruolo in campo internazionale. Non a caso su quest’ultimo aspetto  abbiamo assistito, nella tormentata storia del Paese, alle pressioni delle cancellerie internazionali: basterebbe ricordare i tentativi nei riguardi di Giovanni Gronchi per “contenere”  Enrico Mattei o le discrete “sollecitazioni” su Giorgio Napolitano per il passaggio di consegne dell’ultimo governo Berlusconi.  

I due argomenti – condizione dell’Italia e poteri effettivi del Capo dello Stato – dovrebbero indurre a percorrere una strada obbligata per questo appuntamento istituzionale che preveda una elezione priva del logorante ripetersi di votazioni per raggiungere con fatica e, magari, con traffici opachi, il quorum necessario. Al contrario non può che auspicarsi una strada che veda una ampia coesione di forze politiche nelle prime votazioni con il raggiungimento di una maggioranza qualificata  e che, aldilà degli schieramenti, elegga la personalità più adatta a elevare il ruolo dell’Italia.  Non è certo  un tempo di “staffette”, ma di un  pieno rispetto del senso che i costituenti diedero al settennato presidenziale – condizione di per sé stabilizzante -  come del resto ha chiaramente affermato lo stesso Sergio Mattarella.   Non è neppure il tempo di degne figure di ampio profilo istituzionale – ce ne sarebbero - ma che, pur esprimendo una rispettabile rappresentanza del Paese, mancherebbero  di esperienza e peso internazionali,  oggi indispensabili,  in un quadro  complesso ed in evoluzione. Non paiono adatti alle attuali esigenze dell’Italia neppure coloro che potrebbero vantare una lunga “navigazione”  politica, parlamentare o istituzionale, portatori di una esperienza adeguatasi  nel tempo alle diverse circostanze, ma ormai fuori della pressante attualità.  

Molte personalità politiche e diversi organi di stampa si stanno distinguendo per la ossessiva  ripetizione di un criterio: Mario Draghi non può concorrere perché deve governare fino alla scadenza naturale, altrimenti potrebbero determinarsi le condizioni per elezioni anticipate, considerate , non senza ragione, un impedimento al completamento di quelle riforme indispensabili per la gestione degli essenziali fondi del PNRR.  Lo ha rilevato anche  Antonio Polito:  questo ”coro” insistente “stima così tanto Mario Draghi da volerlo tenere dov’è fino al 2023, anzi al 2030, anzi forse per sempre”, concludendo che “è difficile non sentire puzza di bruciato”. Le motivazioni addotte, infatti,   mal celano una interessata  tendenziosità, poichè  appare prematuro dibattere  sulla questione Draghi si o Draghi no, formalmente inopportuna anche   perché prescinde dalle verificabili intenzioni dell’attuale premier. Anche la indicata esigenza di continuità governativa, probabilmente  nasconde  l’ intenzioni di altre candidature e   strategie partitiche per la presidenza della Repubblica. Neppure appare corretto un ragionamento che parta dai possibili effetti e non dai motivi e dai modi della scelta di chi eleggere al Colle.

Se si ritiene che, in questo momento, l’elezione della più alta carica istituzionale richieda, come dire,  una decisone elevata e adeguata, attraverso una ampia coesione dei grandi elettori, occorre dar corso a questa  consapevolezza ricercando  un accordo in tal senso; il  che, ragionevolmente, dovrebbe  contenere  anche l’altro  obbiettivo, cioè l’esigenza di una continuità governativa. Se dovesse prevalere questo indirizzo politico nella elezione del  Capo dello Stato, di conseguenza  il premier che succederebbe, pur potendo cambiare ove dovesse presentarsi l’opportunità di eleggere Mario Draghi, verrebbe assicurata  ugualmente una   governabilità fino alla scadenza naturale.  In altri termini come afferma l’editorialista “quelli che oggi cantano le lodi della stabilità dovrebbero di conseguenza impegnarsi a non spaccare la maggioranza nella gara del Quirinale” e comunque il presidente dovrebbe essere eletto “da uno schieramento ampio quanto quello che oggi sostiene il governo”. La verità è che, oltre ad ottenere il massimo della rappresentanza del nostro Paese, l’elezione per il nuovo inquilino del Colle più alto, richiede qualcosa che appare, in egual misura,   necessaria e difficile: la consapevolezza da parte delle forze politiche e, aggiungiamo dei “grandi elettori”, di assecondare prioritariamente l’interesse nazionale. Il suo primato sulle manovre, le rese dei conti, le ambizioni più o meno legittime, gli egoistici  disegni partitici. Al Colle siederà chi, come scritto sulla Carta è chiamato a “rappresentare l’unità nazionale”.  

Pietro Giubilo

 

 

 

 

 

 

   

 




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