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14/06/2021
Il ritorno degli Usa. Opportunità per l’Europa e per l’Italia
l’America, con il ripristino della politica pre-Trump, ritorna a parlare al mondo e all’Occidente

Dopo l’anno orribile del Covid 19 che non ha risparmiato la nazione guida dell’Occidente e i giorni difficili della transizione presidenziale, l’America di Joe Biden ritorna nel suo ruolo a indicare la direzione della politica intenzionale.

Il quadro pragmatico e a volte contraddittorio del suo predecessore, uscito sconfitto nel logorante scontro con l’establishment, che si sostanziava in un unilateralismo non adatto alla competizione con l’insidiosa e imperialista nuova politica cinese è oggi sostituito dal rilancio di una visione americana dei rapporti internazionali in coerenza con il suo retroterra storico del ‘900.

L’America, con il ripristino della politica pre-Trump, ritorna a parlare al mondo e all’Occidente ed è difficile non ascoltarla perché il mosaico della nazioni, pur dovendo tenersi sulla base di principi di equilibrio e di pace, risente dei rapporti di forza e della capacità di influenza.
Il parallelismo tra il dopo guerra del 1945 e la via della ricostruzione dopo la pandemia si è estrinsecata nella indicata teoria del Build Bach Better for the World che, come ha giustamente tradotto Maurizio Molinari, significa “vedere nella comunità delle democrazie il possibile motore di uno sviluppo  non solo economico ma anche sul fronte dei diritti, capace di aiutare i Paesi più poveri a trovare una propria formula di crescita, senza essere obbligati ad accettare l’adesione alla Belt and Road Initiative, la nuova Via della Seta a cui Xi affida la scommessa di diventare il leader della globalizzazione”. Negli impegni suscitati dall’incontro di Carbis Bay c’è, infatti, anche un piano di investimenti nei Paesi meno sviluppati al fine di contrastare la presenza i Pechino.

In termini più semplici, si può ritenere che l’America di Biden conferma quanto lo stesso Trump aveva indicato e cioè che la Cina rappresenta il principale rivale strategico e tuttavia, mentre il suo predecessore riteneva di usare a proprio piacimento il “Grosso bastone”, il Big Stick del Roosevelt del primo decennio del Novecento, il nuovo inquilino della Casa Bianca propone un “piano strategico” che chiama in causa soprattutto l’Europa.

Il messaggio del G7 si sostanzia nel confermare una posizione antagonista degli Usa nei riguardi dei Paesi “autocrati” e di Pechino in particolare con la richiesta di inserire nel comunicato finale la questione dei diritti civili e delle restrizioni alla libertà, con la condanna dei lavori forzati nella provincia dello Xinjiang, la necessità di una verifica dell’origine del virus Covid 19 e l’attenzione ai temi della sicurezza sugli approvvigionamenti dei materiali tecnologici. Importante il segnale dell’avvio di una tassazione minima del 15 per cento alle multinazionali dell’informatica. Temi accolti, dopo qualche incertezza sui quali si è registrata una posizione comune dei Paesi europei, quindi una sollecitazione a superare assi privilegiati, singole politiche di espansione commerciale o distinguo nei rapporti con le potenze sotto osservazione, come per le intese della Germania verso l’est Europa e la Russia stessa.

Tutto ciò potrebbe essere visto come una riduzione di una autonomia politica dell’Europa che, tuttavia, non si è mai manifestata a livello continentale, come ad esempio con una politica estera e di difesa comuni e le relative responsabilità. In fondo il rallentamento della unità politica dell’Europa è stato il prodotto di una serie di opzioni nazionali, come per la politica mediterranea della Francia giocata a suo tempo contro gli interessi nazionali italiani, oppure con le aperture ad est della Germania motivate da proprie convenienze economiche e di approvvigionamento energetico. In effetti questo richiamo statunitense ad una linea comune dell’Europa sul tema strategico del rapporto con la Cina sollecita la ripresa di un cammino unitario, riapre la necessità per Bruxelles di rafforzare una unità non solo economica che ha fatto compiere importanti passi in avanti nel segno di un solidarismo a seguito degli effetti disastrosi della pandemia, ma riapre l’agenda politica dell’Europa da tempo chiusa.

L’Italia, che dalle immagini che giungono dalla Cornovaglia mostra una presenza di forte dignità, sembra ritrovare le ragioni geopolitiche di un suo ruolo in Europa. L’affermazione di Mario Draghi al termine del faccia a faccia con il presidente americano, (“Italia europeista e atlantista”) non può essere derubricata a routine diplomatica. E’ il segnale di un modo di intendere i rapporti nel quadro occidentale, ma anche all’interno della costruzione comunitaria. Tanto per fare un solo esempio, il quadro internazionale che Biden ha proposto e l’attenzione mostrata dal presidente del consiglio italiano mostrano come l’operazione diplomatica in fieri, cioè il Trattato del Quirinale, finalizzato a recuperare uno spazio all’interno dell’asse franco tedesco, appare sostanzialmente obsoleto. L’orizzonte politico del presunto triangolo, se mai ci fosse stato concesso di realizzarlo con la nostra presenza in pari dignità, subisce un ridimensionamento. Quel trattato potrà essere attuato o rinviato sine die, ma comunque perde la sua finalità strategica che vedeva come sufficiente il rapporto tra Parigi e Berlino per risolvere la questione della linea comune europea. Mario Draghi ha poi confermato il suo porsi in termini concreti impegnandosi a rivedere il Memorandum firmato con la Cina dal governo gialloverde di Conte nel 2019, che ha esposto eccessivamente il nostro Paese in adesione alla “Via della Seta”.

La svolta di Draghi che ha prodotto risultati imprevedibili sul piano politico (governo di ampia coalizione), che ha visto un cambiamento positivo nei metodi e negli obbiettivi del governare, mostra anche sul difficile terreno internazionale i suoi effetti. Non si tratta, sotto tale aspetto, di un passaggio contingente, ma di un cambiamento che dovrebbe fissarsi in maniera permanente e segnare nel tempo necessario la politica italiana e le sue istituzioni. Il settennato presidenziale ne appare il logico esito.

C’è anche un fatto, un episodio, che, pur limitato, dimostra la portata di questo cambiamento e, d’altra parte la possibile linea di contrasto. Mentre i grandi del G7 si incontravano per convenire sulle linee strategiche del rapporto con la Cina, il leader effettivo del partito di maggioranza relativa incontrava a Roma l’ambasciatore di Pechino. Per usare una immagine: mai come in questa circostanza le cinque stelle di Grillo corrispondono, non solo numericamente, a quelle contenute nel simbolo che sovrasta la grande sala del popolo cinese del palazzo a piazza Tienanmen.

La politica italiana non può non tenerne conto, soprattutto da parte di chi vorrebbe realizzare con questa forza politica una alleanza strategica.

Pietro Giubilo




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