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09/06/2021
Tanta confusione sotto il cielo di Torino
l'Italia sembra interessarsi poco di Torino, e non solo in merito a questa competizione elettorale

Si procede a passi spediti verso la festa del patrono della città (San Giovanni, 24 giugno), con tanto di annunciata ripartenza sull'onda della prossima certificazione di “zona bianca” per tutto il Piemonte. In vista delle elezioni amministrative del prossimo autunno, però, i principali schieramenti non sanno bene a che santo votarsi. Tanta confusione sotto il cielo di Torino, a proposito di coalizioni, candidati e programmi (ammesso che qualcuno ci lavori per davvero, poi, alla compilazione di proposte frutto di una visione complessiva rispetto al futuro di una città sempre più periferica). L'andatura è spesso quella del gambero, con un ritrarsi ad ogni snodo rilevante.
Proviamo a scattare qualche istantanea, per fissare lo stato dell'arte: centrosinistra, pentastellati e centrodestra.

Da seconde linee a primi cittadini?

Con tanta nostalgia per quel “modello Torino” che per i critici è (stato) soprattutto “sistema” di meschini poteri relazionali, il centrosinistra, come sempre fa quando non sa decidersi, si affida alle primarie. Sabato e domenica, ma chi vorrà farlo in modalità online potrà procedere già prima, la scelta è tra quattro aspiranti primi cittadini che sono (stati) soprattutto dignitose seconde linee. Sulla rive gauche politica della “metropoli piccola”, dagli albori della Seconda Repubblica almeno, lungamente “volontario ostaggio” dell'immarcescibile duo di via Chiesa della Salute (1) Sergio Chiamparino e Piero Fassino, d'altronde, non è faccenda cui si sia abituati la battaglia a campo aperto. A farla da padrona, per lustri, è stata soprattutto la coptazione: difficile creare una classe dirigente in uno scontro affare al più tra bande. A contendersi l'investitura a guida di un'area che non sa ancora se essere felice, al di là dei proclami identitari iterati per mesi, d'aver scampato il pericolo della zingarettiana “alleanza strategica” con quei pentastellati che cinque anni fa le strapparono Palazzo di Città: due esponenti del Partito Democratico (l'embedded Stefano Lo Russo e l'outsider Enzo Lavolta), il radicale Igor Boni (appoggiato da +Europa) e il civico Francesco Tresso (un passato nella cooperazione internazionale cattolica e all'Ufficio Migranti diocesano, un presente di stella polare per la frangia istituzionale della sinistra-sinistra).
Non è dato ancora sapere quante e quali saranno le liste in campo. Per quanto possa essere largo il campo, con i consensi potenziali che diminuiscono man mano che ci si allontana dalla Ztl, comunque, l'ipotesi di una vittoria al primo turno è piuttosto peregrina. Tanto che ci si fa “la punta al cervello” per scovare un modo per recuperare i consensi dei mai troppo amati grillini al secondo turno. Per ora, in verità, non si è assistito a molto di più, anche in occasione della recente visita di Francesco Boccia, al più classico appello al necessario far argine alle destre.

Una sola cosa è Chiara: Appendino non si ricandida

Orfano non solo di “quella brava” (così veniva molto generosamente definita Chiara Appendino in rapporto all'entropica collega capitolina Virgina Raggi), ma anche di Rousseau. Smarriti tanto gli elementi identitari quanto la capacità di attrarre consensi da tutte le direzioni, il Movimento 5 Stelle gioca una partita per la sopravvivenza (anche personale, per consiglieri finiti in Sala Rossa quasi per caso). Al netto delle lunari affermazioni del non-ancora-leader Giuseppe Conte, al rapporto con il quale la sindaca uscente affida le sue chance di giocare qualche ruolo politico sullo scacchiere nazionale dopo aver fallito la composizione di una declinazione civica della convergenza giallo-rossa, difficile che dalla conta (con quale metodo ancora non si sa) tra l'appendiano Andrea Russi e la movimentista Valentina Sganga esca qualcosa di più di un posto sicuro sugli scranni di minoranza. A quella che fu l'antesignana del “grillismo di governo”, una Di Maio ma con qualche padronanza in più dell'inglese e dei congiuntivi, resta soprattutto la possibilità di decidere chi far perdere (con la difficoltà di doverlo decidere con un gruppo ormai frantumato, che non trova un accordo nemmeno su quello).

Il candidato non ratificato: il civico Paolo Damilano e la Torino Bellissima

Alle scorse elezioni si presentò diviso in tre e, sommando le rispettive debolezze delle raffazzonate microcoalizioni, convinse meno di un torinese su quattro. Il centrodestra, o meglio il candidato che vuole rappresentare quel mondo, questa volta, è partito con largo anticipo. Già alla fine dello scorso anno, con un timing decisamente coraggioso, l'imprenditore Paolo Damilano ha lanciato la sua corsa verso la conquista della fascia tricolore, sull'onda del civismo sotto il marchio “Torino Bellissima”. La partenza c'è, i partiti meno: il tavolo nazionale di una coalizione non priva di scossoni non ha ancora ratificato la candidatura, anche se nessuno può ormai immaginare uno smarcamento. I sondaggi sono favorevoli, ma i pasticci partitici potrebbero alla fine far sfumare il vantaggio accumulato. Difficile capire, poi, come si potranno mettere insieme il riformismo del candidato e l'ambizione dei litigiosi sovranismi (Lega e Fdi si guardano in cagnesco anche qui) di esercitare una forte egemonia (non solo nei toni).

Da capitale a periferia

L'Italia sembra interessarsi poco di Torino, e non solo in merito a questa competizione elettorale. Un quinquennio il motivo retorico furono le periferie, oggi il rischio concreto è che la prima capitale diventi davvero una periferia (smarrendo il suo ruolo di città metromontana che è porta d'Europa). Chissà a che santo votarsi?

Marco Margrita




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