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04/06/2021
Blocco dei licenziamenti, disoccupazione, mercato del lavoro e ripresa
La scelta dovrà essere tra continuare a puntare sui cavalli di battaglia tradizionali dell’economia italiana oppure, approfittando delle risorse del PNRR, mirare su nuovi settori

Fin dall’inizio della pandemia da Covid-19, uno dei provvedimenti di politica economica più discussi e più controversi è stato l’utilizzo dell’Istituto della Cassa Integrazione Guadagni, accompagnato dal blocco dei licenziamenti. La pandemia ha costretto sia l’analisi economica sia i responsabili delle politiche d’intervento a tirare fuori dal cilindro nuove soluzioni. Che cosa è accaduto? Gli shock dal lato dell’offerta da Covid-19, collegati ai confinamenti (lockdown) più o meno volontari, e più o meno indotti dalla domanda delle famiglie e delle imprese sono andati a braccetto con quelli di domanda di prodotti finiti, spesso eterogenei, collegati a trasformazioni tecnologiche già in atto e solo accelerate dalla pandemia (ad esempio l’aumento dei servizi di ristorazione online). Questo combinato disposto in aggregato ha provocato una variazione del Pil che ha subito un crollo verticale ed una conseguente contrazione dell’occupazione che si è ridotta sensibilmente.

Nel mondo ideale dei manuali di economia del lavoro esiste la finzione delle imprese rappresentative dove quest’ultime nel caso di una diminuzione della domanda della loro produzione aggiustano immediatamente la domanda di lavoro e licenziano i lavoratori marginali per ridurre la produzione. Nella realtà, invece, si comportano in tutt’altro modo utilizzando la politica del ‘mantenimento del lavoro’: questo perché esistono costi di reclutamento e di selezione dei lavoratori e le cosiddette politiche del lavoro messe in campo dal Governo. Nel caso in esame un’impresa che sperimenta nel breve periodo un calo della propria domanda di beni e servizi, senza poter aggiustare il capitale (ovvero senza poter variare gli investimenti) ed in presenza di uno schema cosiddetto di ‘mantenimento del lavoro’, cerca di impiegare al meglio la sua forza lavoro. Il Governo, invece, che fa? Osserva lo shock in questo caso da pandemia e aumenta la fattibilità di questi programmi, perché ritiene (a torto o a ragione) che la situazione sia destinata a tornare alla normalità in breve tempo. Bene!

Cosa è successo in Italia dove c’è l’Istituto della CIG? Per appurarlo caliamoci ora nei panni di una ipotetica impresa. Ha due opzioni: licenzia i lavoratori marginali, abbattendo il costo marginale a 0 e amen; oppure sfrutta lo schema chiamato CIG, abbattendo il costo marginale a 0 perché non vuole separarsi dai lavoratori in esubero. La norma sul blocco dei licenziamenti stando così le cose è ridondante: ovvero è solo la conseguenza di una scelta e protegge soltanto i lavoratori ‘insider’. L’Italia, infatti, pur avendo messo un blocco generalizzato ai licenziamenti ha avuto un crollo dell’occupazione simile a Paesi che non l’hanno adottato, con la perdita di più di un milione di posti di lavoro nel 2020: 333mila lavoratori con contratti a termine, 362mila lavoratori autonomi e non si sono verificate le assunzioni in prevalenza di giovani, il che ha consentito alle imprese di ridurre di 325mila i lavoratori con contratti a tempo indeterminato. Hanno pertanto sperimentato la perdita del lavoro in prevalenza gli ‘outsider’, ovvero quella stragrande maggioranza di persone che non hanno le protezioni tipiche del lavoro dipendente, molti lavoratori irregolari: ignoti alle Istituzioni ed alle statistiche.

Finora abbiamo attenzionato il lato delle imprese (ovvero la domanda di lavoro), vediamo il lato offerta (ovvero i lavoratori). Cosa accade? Nel nostro Paese esiste da molti anni un sistema sclerotico di protezione al reddito dei lavoratori licenziati. Nel caso l’impresa scelga la CIG il lavoratore ha un sistema di protezione inefficiente ma che fornisce. finché dura. una sicurezza reddituale. Se l’impresa sceglie di licenziarlo è perché spera in futuro nella buona sorte di trovarne un altro con la stessa formazione. C’è da chiedersi ora perché in Italia esiste la norma sul divieto di licenziamento pur essendo ridondante. Semplicemente perché non c’è un sistema di ammortizzatori sociali efficiente e le politiche attive del lavoro non svolgono bene il loro compito. Col paradosso che le imprese stanno attualmente cercando personale e non lo trovano (vi sono un milione di posti vacanti, cioè posti per i quali le imprese faticano a trovare le persone adatte) e intanto la disoccupazione cresce: è l’anomalia di un mercato del lavoro inefficiente dove domanda e offerta faticano a incontrarsi e dove i centri per l’impiego non sono all’altezza del compito loro assegnato.

Cosa bisognerebbe fare? Eliminare il blocco dei licenziamenti potenziando gli ammortizzatori sociali come hanno sottolineato il premier Mario Draghi nel discorso d’insediamento ed il Governatore della Banca d’Italia nelle sue recenti ‘Considerazioni finali’. Nelle parole di Ignazio Visco: "[andrebbero] corrette le importanti debolezze nel disegno e nella copertura della rete di protezione sociale che permangono nonostante le riforme degli ultimi anni; la pandemia le ha rese manifeste, richiedendo l’adozione di interventi straordinari. Siamo inoltre ancora lontani dalla definizione di un moderno sistema di politiche attive, in grado di accompagnare le persone lungo tutta la vita lavorativa.” Nel nostro Paese poi oltre al problema delle poche risorse stanziate per gli ammortizzatori sociali c’è anche quello della disomogeneità sul territorio degli standard delle prestazioni fornite dalle diverse strutture. Quello di cui avrebbe inoltre bisogno l’Italia è di una ripresa strutturale che per ora non è alle porte. Nei mesi a venire vi sarà, infatti, solo un rafforzamento dell’attività economica che dovrebbe portare ad una crescita ciclica del Pil superiore al 4% (media annua). L’atteso rimbalzo dopo il crollo. Una ripresa strutturale, invece, potrà verificarsi solo se si rafforzerà la struttura delle imprese e del sistema economico Italia. Ma questo richiede una riallocazione delle risorse produttive (capitale e lavoro) tra imprese e settori industriali che abbisogna di flessibilità e di spostamento delle risorse.

La scelta dovrà essere insomma tra il continuare a puntare sui cavalli di battaglia tradizionali dell’economia italiana: turismo e cultura, settore alimentare ed eno-gastronomico, e meccanica di precisione, oppure approfittando delle risorse del PNRR mirare anche su nuovi settori.  

Marco Boleo




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