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09/05/2021
Aldo Moro e il “disegno interrotto”
Appare sempre più necessario restituire alla vicenda di Aldo Moro il suo vero significato storico e politico

L’evento editoriale che accompagna la ricorrenza della uccisione di Aldo Moro quest’anno è rappresentato dalla pubblicazione del libro di Walter Veltroni (“Il caso Moro e la prima repubblica”). Con esso l’ex leader del Pd, insieme ad alcune interessanti interviste, riafferma la nota tesi, più volte ribadita da esponenti dell’allora Partito Comunista e cioè che nell’“istante in cui perdemmo Moro”, finiva la possibilità di realizzare quel “compromesso storico” che Enrico Berlinguer aveva proposto, con “le citazioni di Lenin e della Nep”, come ricorda lo stesso Veltroni, al fine di “farla sembrare non una svolta e non certo una rottura, ma qualcosa che si pone in perfetta continuità con una tradizione”. Chiama a testimone della finalità interruttiva di quella esperienza storica da parte dei brigatisti, Aldo Franceschini “uno dei fondatori dell’organizzazione terrorista” che “in una intervista mi disse chiaramente che l’obbiettivo delle Br, prima e dopo il rapimento dello statista Dc, era far saltare il compromesso storico”.

Che per il Pci si trattasse di riprendere “un tema che aveva  impegnato già la ricerca di Palmiro Togliatti, la politica delle alleanze”, come afferma Veltroni appare esatto, ma, d’altro canto, la intenzione politica del progetto di Aldo Moro era differente, se pur prevedeva un governo con la partecipazione del Pci, in quanto rappresentava l’avvio della cosiddetta  “terza fase”, in continuità con quella centrista e di alleanza con i socialisti, ma volta ad attivare e sostenere nel tempo un processo di stabilizzazione del sistema politico, tale da consentire l’introduzione, anche in Italia, di una effettiva democrazia dell’alternanza.

Questa “terza fase” che la cultura politica comunista ha tentato di equiparare al “compromesso storico”, cioè ad una ripresa della alleanza a cui De Gasperi aveva rinunciato negli ultimi anni ’40, era ben definita dallo stesso statista democristiano “non un approdo, ma una preparazione scrupolosa e responsabile per il domani” (Il Giorno, 10 dicembre 1976), cioè avrebbe riguardato e preparato il compimento dell’assetto istituzionale e politico dell’Italia, non una alleanza politica, come invece il Pci ed i suoi successori hanno sempre tentato di affermare quale obbiettivo permanente.

Nel discorso ai gruppi parlamentari con i quali si diede il via libera all’accordo di governo ciò appare evidente. Disse con chiarezza: “una intesa politica, che introduca il Partito comunista in piena solidarietà politica con noi, non la riteniamo possibile”. Non mancò di indicare la pericolosa deriva del Pci: “C’è la crisi dell’ordine democratico, crisi latente, con alcune punte acute… guardate amici anche… alle forme endemiche, alle forme di anarchismo dilagante cui forse ha dato il destro per imprudenza, lo stesso Partito Comunista quando ha deciso di convogliare alla grande opposizione alla Democrazia Cristiana le forze soprattutto giovanili del Paese”. E rispetto al rischio dell’egemonia e della “forza avvolgente che è il Partito comunista”, contrapponeva “la nostra idealità e la nostra unità”, certo con un “elettorato liberaldemocratico”, ma “capaci di rappresentare a livello di grandi masse questa forza ideale, ma ricordandoci della nostra caratterizzazione cristiana e della nostra anima popolare”.

L’affidamento della responsabilità del governo a Giulio Andreotti non rappresentava tanto un necessario momento tattico per tranquillizzare anche il quadro politico internazionale nel quale operava il nostro Paese, quanto soprattutto la plastica rappresentazione della continuità che corrispondeva a quella che potrebbe definirsi una ulteriore tappa nella “tessitura delle transizioni” che avevano accompagnato il Paese dalla Costituente fino alla situazione che presentava il Paese nella seconda metà degli anni ’70, nei quali stava affermandosi una spinta di violenza che era una vera e propria sfida alla stessa democrazia italiana (“restare sostanzialmente nella nostra linea anche se su un terreno nuovo e più esposto”). 

Questo percorso e le fasi politiche che venivano costruite rappresentavano l’affermazione di un superiore interesse che riguardava direttamente la democrazia in una visione non legata o subordinata ai soli meccanismi politici (“la nostra flessibilità ha salvato fin qui, più che il nostro potere, la democrazia italiana”). Egli ricercava nelle formule politiche che andava suggerendo una verità superiore inerente la Nazione e la convivenza civile. Aldo Moro aveva considerato e rispettato nel corso della sua azione politica la cultura dei partiti, senza impedirne la coerenza, ma collocandosi, lui, oltre lo spazio delle forze politiche per indicarne e garantire le ragioni superiori che ne giustificavano i sacrifici che venivano richiesti per radicare la democrazia. Queste considerazioni consentono di valutare il significato complessivo dell’esperienza politica morotea, come azione del “politico della crisi”, seguendo le considerazioni conclusive dell’intenso volume dedicato, a suo tempo, allo statista Dc, da Gianni Baget Bozzo e Giovanni Tassani.

Questa grande capacità di realizzare una alta mediazione, contrasta con i tempi attuali che vedono da anni la scomparsa di questa categoria politica, oltre che degli stessi strumenti per realizzarli, cioè di partiti consapevoli di essere elementi di una democrazia rappresentativa.

L’uccisione di Moro ha assunto quindi un significato e ha comportato un danno ben superiore rispetto a quello dell’abbandono di un disegno o di una formula politica. Dopo quella tragedia politica l’Italia ha perso la capacità di affrontare la crisi - una transizione priva di “tessitura” -  che deriva dalla sua stessa complessità storica, mentre gli stessi partiti si privarono della forza rappresentativa che non è solo espressione delle problematiche, ma intelligenza degli avvenimenti. Da allora è stato sempre più difficile rintracciare le ragioni del bene comune che consentono di superare diseguaglianze e camminare sulla strade dei cambiamenti necessari.

Non dobbiamo dimenticare che a rendere difficile la politica italiana e ad aprire un tempo nel quale cominciò ad esaurirsi lo spazio dell’unità politica del cattolici fu l’altro significativo avvenimento e cioè la morte di Paolo VI, il Papa della Dc di Aldo Moro. Nonostante la distinzione tra fede e politica essa era rimasta attorno alla Dc e non era mai mancata una alta comprensione della sua necessità. Si andò, infatti aggiungendo, successivamente, con la sua fine, un altro elemento di inquietudine e di instabilità.

In conclusione e per confermare quanto sia giustificato lo sforzo di trovare oltre le ragioni politiche anche un senso più profondo alla tragiche giornate vissute da Aldo Moro, fino alla sua uccisione, possiamo rammentare l’articolo di Giovanni Festa, Postulatore Generale dell’Ordine dei Predicatori, apparso su Avvenire dell’8 maggio 2018. In esso si ricordava quanto disse don Giuseppe Dossetti, nell’Omelia del 14 maggio 1978: la prigionia di Moro “coincide con la settimana di passione e con tutto il tempo pasquale”, la sua “chiamata a comparire dinnanzi al Signore” avvenne “meno di quarantotto ore dopo che noi avevano celebrato il mistero dell’Ascensione”; paragonandone la morte a quella di un “agnello condotto al macello”.

Appare sempre più necessario restituire alla vicenda di Aldo Moro il suo vero significato storico e politico, insieme, per la sua persona, al senso ultimo di quei tragici avvenimenti.

Pietro Giubilo 




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