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03/05/2021
Una ferita non ancora rimarginata
il riaffiorare di tesi giustificazioniste o tendenzialmente usate per trattare diversamente fattispecie simili ripresenta quella “ciglia nell’occhio” di un’Italia che non stima se stessa

Occorre riconoscere il merito del neo ministro della giustizia, Marta Cartabia, per aver ottenuto l’annullamento della errata “dottrina Mitterand” con la quale si era impedito per decenni l’arresto e la possibile estradizione in Italia di un numeroso gruppo di terroristi, riparatisi in Francia, appartenenti a organizzazioni comuniste e che si erano macchiati di gravissimi delitti.

Apprezzabili anche le espressioni usate che hanno indicato l’esigenza di “chiarezza e di reale conciliazione”, tese a cercare di chiudere una stagione lunga e complessa che ha lasciato in Italia una scia di sangue con i due delitti più impressi nell’opinione pubblica: quelli del commissario Luigi Calabresi e di Aldo Moro, del quale ricorre nei prossimi giorni la infausta data dell’“esecuzione della sentenza”. Oltre al delirio che inghiottì servitori dello Stato, giornalisti, imprenditori, sindacalisti, tutti uomini che per nulla personificavano uno Stato ed una società oppressivi e da “combattere”.

Tuttavia, che si tratti di giungere ad una vera “conciliazione”, si possono avere seri dubbi, in quanto questo termine richiama l’idea di un incontro e di una composizione, di una controversia che richiede una sorta di accordo tra parti in contrasto al fine di essere chiusa. Per giustificare tale possibilità si sono scomodati anche riferimenti storici, peraltro assai poco pertinenti, come il caso della amnistia di Togliatti nei riguardi dei fascisti che ebbe il merito ed il significato di chiudere una durissima guerra civile, certo con differenti responsabilità e giustificazioni storiche, ma che comunque aveva visto i fatti di sangue svolgersi nel drammatico scenario della guerra mondiale, in una condizione dittatoriale nell’Italia e di un conflitto ideologico.

Il provvedimento frutto di una intesa tra Italia e Francia ha trovato due forme di resistenza e di critica. Quella più caratterizzata da un giustificazionismo culturale ed ideologico l’hanno fornita gli intellettuali francesi che hanno firmato un appello su Libération al presidente Macron per trattenere nel Paese gli “esuli”, condannati con “leggi speciali alla base delle procedure italiane”, ma che avrebbero “deposto le armi”. In questa prosa vi appaiono evidenti forzature che non trovano alcun riscontro nella realtà, né storica né giuridica, e che dimostrano, d’altro canto, come in forme più ristrette, sopravviva a sinistra quell’accostamento ad una visione che ritiene giustificata l’opposizione rivoluzionaria ed il rifiuto dello Stato rappresentativo. A questo proposito non possiamo non rammentare la mobilitazione che impegnò nel giugno del 1971, ottocento “rappresentanti della cultura italiana” in un documento pubblicato dall’Espresso che definiva Calabresi “commissario torturatore” o, nell’ottobre successivo, quei cinquanta “esponenti del mondo dell’arte, della cultura e dello spettacolo”, che scrissero una lettera aperta al procuratore della repubblica di Torino a difesa dei dirigenti di Lotta Continua, sotto indagine. Anche la stessa uccisione di Luigi Calabresi non suscitò le reazioni auspicate, come scrive Michele Brambilla nel suo famoso “Eskimo in redazione”: “pochissime voci si levarono per difenderne la memoria”, tra queste Carlo Casalegno che pagò con la vita la sua denuncia del “metodico linciaggio morale” e Giampaolo Pansa che scrisse di “macchina del linciaggio”, restando sempre nel mirino della sinistra, anche con contestazioni violente.

Dopo tanti anni e pochi ripensamenti tra i firmatari di quegli scritti che in qualche modo avallarono le accuse di Lotta Continua, una presa di posizione nettissima si è avuto proprio a ridosso dell’arresto dei terroristi in Francia. Paolo Mieli ha usato parole inequivocabili a proposito della sua firma apposta insieme a centinaia di intellettuali sull’appello dell’Espresso e che dovrebbero essere prese ad esempio: “Io mi vergogno davvero di quella cosa. Non è una bella pagina della mia vita”, criticando proprio la logica che animava l’azione di esponenti come quelli di Lotta Continua: “io so ma non ho le prove, tanto poi pagano altri, tanto poi a sparare sono altri”. Esattamente il contrario dell’atteggiamento di Gad Lerner che, proprio negli stessi giorni, ricordando la sua militanza dal 1973 al 1976 in quella organizzazione e rifiutando di accostarla alle azioni terroriste, ha ribadito di non vergognarsi di nulla e di non doversi scusare, ritenendo addirittura che Lotta Continua evitò a molti giovani la deriva terroristica. Peccato per lui che aderì ad un movimento che proprio l’anno prima aveva definito l’omicidio di Calabresi, avvenuto il 17 maggio 1972, “un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”, cioè un atto di giustizia. Senza contare la responsabilità diretta dei suoi dirigenti nell’assassinio, confermata dalle successive sentenze passate in giudicato.

Anche l’altro aspetto, quello umanitario (“dopo quaranta anni hanno cambiato vita”), che dovrebbe far evitare l’esecuzione della pena, merita qualche considerazione, per la sua parzialità e strumentalità. E’ assai difficile accettare di attribuire questo valore a chi ha mostrato una totale spietatezza nel cancellare la vita di persone, la cui mitezza e esemplarità non ha fatto velo agli assassini ed impedito che venissero giustiziati. Pensiamo alla uccisione dell’appuntato Giuseppe Guerrieri sotto gli occhi del figlioletto, alle strazianti lettere, da quell’ingiusto “carcere”, di Aldo Moro che Paolo VI definì “uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico” o dell’agonia del gioielliere Pierluigi Torregiani, colpito con il figlio che da allora vive su una sedia a rotelle. Il fatto che, in molti casi, si sia trattato di delitti comuni, come è stato rilevato, non consente una decisione liberatoria per la pena, ma neppure una banalizzazione di quegli atti, anche perché la giustificazione politica della violenza aggiunge, in democrazia, una aggravante, sotto il profilo della insensatezza e pericolosità sociale dell’azione compiuta.

Resta da dire che il riaffiorare di tesi giustificazioniste o tendenzialmente usate per trattare diversamente, in nome di una ideologia, fattispecie simili - pensiamo ai responsabili di analoghe azioni terroristiche da parte dell’ultradestra per i quali non vi è mai spazio per considerazioni simili - ripresenta quella “ciglia nell’occhio” di un’Italia che non stima se stessa, che non ritrova la sua coscienza nazionale, che perpetua quell’“otto settembre” divisivo, che denigra la politica e non ama lo Stato e la sua dirigenza. Quella tendenza a perpetrare un sessantotto che cancelli storia e tradizioni ed è pura negazione camuffata da rivoluzione. Una rivoluzione che se ha abbandonato la delegittimazione violenta delle istituzioni, tentata negli anni di piombo, continua a sradicare le radici di quei valori etici e morali coessenziali in una democrazia.

E’ impensabile offrire dignità a quegli argomenti che propongono come chiusura di una pagina di storia, la soppressione della pena per il solo fatto che gli esecutori dei delitti abbiano vissuto in libertà quaranta anni. Tra pochi giorni ricorderemo l’uccisione di Aldo Moro sul cui dramma, Gianni Baget Bozzo, scrisse che venne “attirato nella spirale della morte proprio da quei movimenti che si agitavano in quella generazione di cui egli si era sforzato di intendere il messaggio”. Un tristissimo evento che mantiene nel tempo anche una opacità non svelata.

Emblematicamente quel “tradimento” e i conti che si vorrebbero lasciare in sospeso per i delitti di quei giorni, mostrano che la ferita inferta alla democrazia non si è ancora rimarginata.

Pietro Giubilo    




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