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03/12/2025
I beni pubblici europei
La stagione che stiamo vivendo ci mette davanti ad una sfida inedita: riuscire a governare e proteggere quelli che gli economisti chiamano beni pubblici globali. Clima, stabilità finanziaria, sicurezza digitale, salute globale,

La stagione che stiamo vivendo ci mette davanti ad una sfida inedita: riuscire a governare e proteggere quelli che gli economisti chiamano beni pubblici globali. Clima, stabilità finanziaria, sicurezza digitale, salute globale, e transizione energetica: sono tutti beni che non appartengono ad un singolo Stato, e per questo nessuno Stato può garantirli alla collettività da solo. Paul Samuelson e Richard Musgrave, due dei padri putativi della moderna economia pubblica, lo avevano spiegato già negli anni ‘950: quando un bene è ‘non escludibile’ e ‘non rivale’, c’è bisogno di un’istituzione collettiva forte per produrlo. Questo significa che sono beni pubblici puri, ovvero che non possono essere negati a nessuno (non escludibili) ed il cui consumo da parte di un individuo non ne diminuisce la disponibilità per gli altri (non rivali). Oggi questa consapevolezza dovrebbe portarci a ripensare completamente il modo in cui sono organizzati i sistemi fiscali ed i bilanci pubblici. Perché se i problemi sono globali o almeno continentali, le risposte non possono rimanere a livello nazionale. Il paradosso europeo. L’Europa, che più di altri continenti del Mondo ha costruito un’architettura di cooperazione e di integrazione, paradossalmente fatica ad assumere il ruolo di garante dei suoi stessi beni pubblici strategici. Le Istituzioni europee si trovano in mezzo ad un paradosso ben descritto dall'economista di origine turca Dani Rodrik: sono stati integrati i mercati, ma lo stesso non è avvenuto con la capacità fiscale, né con la Governance politica. Col risultato: che vi sono responsabilità di governo notevoli senza la disponibilità di strumenti adeguati. Il bilancio comune europeo rimane insignificante, circa l’1% del Pil dell’Unione Europea (UE), e soprattutto non possiede vere entrate fiscali proprie. Dipende dai contributi degli Stati, come una confederazione del XIX secolo. È difficile immaginare un’Europa capace di gestire la transizione energetica, di sviluppare infrastrutture digitali, di sostenere ricerca e innovazione su scala continentale con una simile scarsità di risorse. La gabbia del Patto di stabilità. A complicare ulteriormente il quadro c’è il Patto di Stabilità: un insieme di regole nate in un’altra epoca economica, quando si pensava che bastasse fissare alcuni parametri, il famoso 3% di deficit, ed il 60% di debito pubblico/Pil, per stabilizzare tutto. Ma oggi quelle regole appaiono quasi un reperto archeologico. Negli ultimi dieci anni economisti come Olivier Blanchard, Lawrence Summers e molti altri hanno mostrato che il mondo è cambiato radicalmente: i tassi di interesse sono scesi, gli investimenti pubblici hanno un rendimento più alto, e la transizione climatica richiede una quantità di capitale pubblico senza precedenti. Continuare a ragionare con i parametri degli anni ’990 significa immobilizzarsi proprio quando servirebbe più flessibilità. Vale quindi la pena chiedersi se il 'Patto di stabilità' non debba essere rivisto con uno spirito nuovo. Non per allentarlo in modo indiscriminato, ma per distinguere tra deficit utili: quelli che finanziano investimenti strategici, che generano crescita futura e deficit che alimentano la spesa improduttiva. La ricerca economica lo ripete da tempo: non tutti i deficit sono uguali. Il tema del moltiplicatore. Molti studi mostrano che quando un Governo investe in infrastrutture utili, tecnologie verdi, istruzione, ricerca, il moltiplicatore degli investimenti è elevato: ogni euro di spesa ne genera di più in crescita futura. È così che il debito diventa sostenibile: grazie alla crescita, non grazie ai tagli che possono risultare recessivi. Ecco perché ha senso pensare ad un’Europa che premi i deficit 'buoni', quelli capaci di generare beni pubblici comuni, invece che limitarli in modo automatico. La questione delicata della spesa militare. C’è poi un punto su cui vale la pena soffermarsi: l’identificazione della spesa militare come 'investimento'. Una classificazione statistica del 2010 l’ha inserita nella voce 'investimenti pubblici', ma è una forzatura. Gli armamenti sono sì beni durevoli, ma non generano capacità produttiva futura: non permettono di produrre altri beni, come farebbero una ferrovia, una rete digitale, un ospedale o un centro di ricerca. Economisti e analisti (su tutti recentemente Paolo Maranzano e Paolo Romano sul blog Menabò) hanno sottolineato che questa classificazione altera le statistiche, gonfia artificialmente gli investimenti pubblici e rischia di sottrarre risorse ad attività strategiche. Se l’Europa vuole davvero orientare la spesa verso la transizione ed i beni pubblici, allora serve correggere questa distorsione. Il nodo politico. In fondo, tutto questo discorso ci porta ad una domanda politica prima ancora che economica: l’Europa vuole davvero dotarsi degli strumenti necessari per affrontare le sfide del secolo? Vuole una governance capace di produrre beni pubblici continentali? Vuole una politica fiscale che distingua ciò che costruisce futuro da ciò che semplicemente consuma risorse? Se la risposta è affermativa, allora serve ripensare seriamente il quadro fiscale europeo, aggiornare le sue regole e dotare l’Unione di un bilancio comune all’altezza delle sue responsabilità. Considerato che la transizione che dobbiamo affrontare: ecologica, energetica, tecnologica, non potrà essere finanziata né governata con gli strumenti del passato. Lo avevano capito Samuelson e Musgrave settant’anni fa; oggi tocca a noi tradurlo in provvedimenti di politica economica.

 

 

 




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