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01/04/2023
'La Croce è anche la via'
Giovanni Paolo II accettò la sofferenza con la pazienza del servo fedele.

Tornano sempre alla mente le immagini della sofferenza di papa Wojtyla nel tratto finale del suo pellegrinaggio terreno. E soprattutto quell’inquadratura televisiva che ce lo mostrò, nella sua cappella privata, abbracciato al legno della Croce nell’ultimo venerdì della Passione di Gesù (in pratica otto giorni prima di morire), durante la Via Crucis del Colosseo, cui non poté presenziare di persona. Se davvero esiste la categoria delle immagini che riassumono una vita, quella vi fa parte di diritto, anzi ne è in qualche modo il prototipo. Perché la croce ha "spogliato" prima l’uomo Karol Wojtyla, poi il pontefice Giovanni Paolo II di tutto ciò che aveva, dagli affetti alla prestanza fisica. A vent’anni aveva perso la madre, un fratello amatissimo e il padre che era l’ultimo dei familiari rimastigli. Andando avanti negli anni, sperimentò sulla sua pelle gli orrori della Seconda guerra mondiale (fu anche a un passo dalla morte, investito da un camion militare tedesco sul ciglio della strada) e le angherie del regime comunista. E una volta eletto Pontefice subì il devastante attentato del 13 maggio 1981, dal quale si salvò – sono le sue stesse parole – perché «una mano materna aveva deviato il proiettile» a colpo sicuro di Ali Agcà. L’annuncio del Vangelo, ci ha ricordato papa Francesco, non si può mai disgiungere dalla sofferenza della Croce. San Giovanni Paolo II ne è stato l’emblema vivente, anche con i suoi ripetuti ricoveri (è il Papa che possiede il doloroso record dei giorni passati in ospedale, 164 suddivisi tra le sue 12 degenze, al punto che con la sua ben nota ironia aveva definito il Policlinico Gemelli «il Vaticano tre» – il «due» era Castel Gandolfo).

Vennero poi l’insorgere del Parkinson e soprattutto gli ultimi cinque anni di Pontificato, che, come qualcuno, giustamente ha fatto notare egli trascorse sulla «cattedra del dolore». Per non parlare delle critiche, a volte anche aspre, che anche il suo magistero ricevette sui temi eticamente e socialmente sensibili. I vaticanisti Domenico Del Rio e Luigi Accattoli, in un libro, scrissero che papa Wojtyla era il «nuovo Mosè». A distanza dalla fine del suo pontificato, ferma restando la validità di quella intuizione, viene spontaneo anche il paragone con un altro personaggio biblico, Giobbe e le sue sofferenze. La Croce, appunto, accettata sempre con la pazienza del servo fedele. Ma poiché come direbbe don Tonino Bello, la Croce stessa è «una collocazione provvisoria», proprio nel Sabato Santo in cui la Chiesa medita nel silenzio con Maria e insieme con Lei (alla quale Giovanni Paolo II aveva consacrato tutto stesso) già assapora la certezza della Resurrezione, l’immagine del Papa abbracciato al legno salvifico di Gesù sfuma come in una dissolvenza incrociata, lasciando il posto alle belle parole con cui l’allora cardinale Joseph Ratzinger, nell’omelia dei funerali, lo descrisse affacciato alla finestra del cielo. E ci piace dunque immaginarlo, ormai Santo, mentre indica come un viatico per il cammino che ancora ci attende il Vangelo sfogliato dal vento sulla sua bara. Immagine potentissima anche quella. E invito non più rimandabile a sfogliarlo davvero quel Vangelo. Con la nostra vita, soprattutto. La consapevolezza delle possibilità che il moderno progresso scientifico può offrire rende la persistenza di una povertà tanto diffusa ancor più scandalosa, in particolare quando è accompagnata, e succede spesso, da consumismo sfrenato e ostentato benessere.

Una siffatta gestione aziendale, che potremmo dire familiare, ha protetto dall`alienazione ed ha consentito il formarsi di “comunità di lavoro” nelle quali, più che altrove, si fanno presenti alcune tipiche virtù indicate nell`enciclica Centesimus annus: “la diligenza, la laboriosità, la prudenza nell`assumere i ragionevoli rischi, l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la fortezza nell`esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma necessarie per il lavoro comune dell`azienda e per far fronte agli eventuali rovesci di fortuna” (Ioannis Pauli PP.) Tutto ciò si deve probabilmente anche alla antica tradizione, caratterizzata dall’amore al sacrificio, dalla laboriosità degli emigranti costretti a lavorare in Paesi stranieri per mantenere la famiglia, dalla solidarietà che lega fra loro i componenti delle nostre popolazioni raccolte attorno alle chiese parrocchiali. Pensando al Movimento dei Lavoratori Cristiani e alle cooperative di lavoro, alle prime “leghe bianche” dei lavoratori per difendere i propri diritti, modelli precursori dell’attuale organizzazione socio-assistenziale, ci si chiede se l’attenuarsi dell`ispirazione cristiana dello sviluppo non debba alla lunga rivelarsi motivo di involuzione sociale e persino economica anche per tutte le nostre realtà, che grazie a quanto Papa Giovanni Paolo II ha donato, non può lasciar indifferenti quanti si preoccupano del vero benessere delle popolazioni di questo mondo. E se la soluzione o, piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa sempre più complessa, deve essere cercata nella direzione di «rendere la vita umana più umana», allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un’importanza fondamentale e decisiva.

Gilberto Minghetti




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