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20/03/2023
Una questione di dignitĂ 
Il tema della filiazione non può essere considerato nella sola sfera di un presunto diritto individuale ad avere un figlio.

In molti, troppi casi, quando le “direttive” europee intervengono sui temi riferibili anche al campo dell’etica, tali normative si presentano colme di ambiguità. Le questioni della famiglia, della persona, dei diritti sono oggi fortemente influenzate dalla cultura relativista che esalta una concezione individualista che sovrasta ogni altra visione. È il caso del cosiddetto Certificato europeo di filiazione, cioè di un regolamento dell’Ue che prevede il riconoscimento dei propri diritti ai figli “comunque concepiti” in tutta Europa. In particolare, con tale normativa si intenderebbe far sì che “il riconoscimento della filiazione, accettata in uno Stato membro, sia rapido, agevole ed efficace”, permettendo ai genitori “di dimostrare con facilità lo status proprio o dei figli rispettivamente, in un altro Stato membro”. A tal fine il testo, sottoposto all’esame degli stati, prescrive che “nessuna autorità o persona davanti alla quale sia stato presentato un certificato europeo di filiazione rilasciato in un altro Stato membro, dovrebbe poter chiedere la presentazione di una decisione giudiziaria o un atto pubblico al posto del certificato”. Al di là di un accattivante linguaggio burocratico, in buona sostanza, balza evidente l’intenzione, con l’approvazione di tale regolamento, di annullare il diritto, in tali ambiti, dei singoli Paesi, e con ciò le diversità rispecchiate da tradizioni, storie, culture e fondamenti etici. Va detto con chiarezza che innanzitutto verrebbe a mancare quello che il prof. Alberto Gambino – prorettore dell’Università europea di Roma e presidente di Scienza e Vita – definisce come “quel margine di discrezionalità che l’Europa ha lasciato agli stati”. Si tratterebbe di una invasione di campo non accettabile, in quanto la delega e, di conseguenza, la cessione di sovranità, che le nazioni hanno dato a Bruxelles, riguarda la sfera economico finanziaria o commerciale, ma non le questioni che hanno le loro radici nei valori più profondi di un popolo come quelle che riguardano la famiglia. Come conseguenza, è stato evidenziato, si aprirebbe la strada all’omogenitorialità e, parallelamente, al riconoscimento della pratica dell’utero in affitto che in Italia è espressamente vietata dalla Legge 40 del 2004.

Pertanto il 14 marzo, in commissione politiche Ue del Senato, la maggioranza di governo ha approvato una risoluzione contraria al Regolamento, impegnando il governo a chiedere le necessarie modifiche affinchè, con l’approvazione, non si determini, surrettiziamente, la possibilità di aggirare le norme italiane. Infatti, il percorso della maternità surrogata, attualmente, non è considerato un reato universale, obbiettivo, invece dell’attuale governo. Anzi in alcuni paesi europei – Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Romania – tale pratica è tollerata ed in parte regolamentata, mentre in altre nazioni in prospettiva di adesione, come l’Ucraina, essa è pienamente legale. Tale Paese, purtroppo, addirittura, è diventato un hub, come certe immagini all’inizio del conflitto con la Russia hanno drammaticamente mostrato. Non manca la prospettiva di una sua ulteriore diffusione. Recenti indagini di mercato, inoltre, hanno dimostrato che, a livello internazionale, ci si sta sempre più trovando di fronte ad una vera e propria industria dell’utero in affitto con un “giro di affari” che attualmente tocca i 30 miliardi di dollari e che con il trend in corso, nel 2032, arriverebbe a 129. Certo non può nascondersi il problema, assai rilevante, ripreso da un editoriale apparso su Avvenire il 15 marzo, scritto da Giuseppe Anzani, già presidente del tribunale di Como, della “giustizia del giorno dopo”, cioè di quella “possibile”, “residua”, verso un figlio, “sacrificato” del “diritto ad avere un padre e una madre”, a cui per il “maggior bene che resta”, potrebbe “giovare una relazione giuridica con il partner del genitore vero, a somiglianza di quella, con carattere adottivo”, ma “con un intervento di garanzia giudiziale”. Su questo punto specifico il Ministro Eugenia Roccella, in una intervista del 16 marzo, si è espresso con chiarezza. Sulla possibilità di adozione, denominata step child adoption, “la Cassazione ha detto che in questi casi si deve passare dalla valutazione del giudice”, proprio quello che il regolamento proposto dalla Ue vuole evitare con un procedimento automatico.

Infatti “i giudici hanno il compito di verificare che il rapporto con l’altro genitore non biologico ci sia davvero e sia continuativo”. Si tratta, ha proseguito il ministro, di quella “serie di condizioni” previste dalla legge sulle adozioni e finalizzate “al miglior interesse per il bambino”. Tra l’altro viene ricordato tra “i suoi diritti”, il “diritto all’origine”, precisando che, invece, “ai bambini figli di coppie omosessuali, questo diritto viene negato perché hanno un solo genitore biologico. L’altro genitore è stato volutamente negato”. Rispetto a questa “compravendita della genitorialità, un vero e proprio mercato” così definito da Eugenia Roccella, sostanzialmente lesivo dei diritti dei bambini, non possiamo non ricordarci delle parole espresse con chiarezza da Papa Francesco che vanno al fondo della questione. “L’utero in affitto – ha detto a giugno dello scorso anno – è una pratica inumana che lede la dignità della donna”; “le donne – ha sottolineato – quasi sempre povere, sono sfruttate, e i bambini trattati come merce. Mettere al centro la famiglia fondata sul matrimonio che dev’essere riconosciuta nella sua funzione generativa, unica e irrinunciabile”. Appunto, la questione della filiazione non può essere considerata nella sola sfera di un presunto diritto individuale ad avere un figlio. Le modalità di come ottenerlo non possono essere accettate o, addirittura legalizzate, se queste offendono la dignità della persona, della donna in particolare, o i diritti del bambino. Si tratta di principi irrinunciabili. Una regolamentazione europea che contempli la possibilità di doversi uniformare all’assenza di tali presupposti è inaccettabile. Il dibattito di questi giorni ha reso evidente che vi è una distanza incolmabile tra i sostenitori di un positivismo giuridico senza limiti, ormai caratterizzato da un dilagante relativismo e chi, invece ed a ragione, intenda restare fedele ad una concezione nella quale la persona e ciò che ad essa inerisce in termini di dignità e dei diritti, essendo precedenti alla stessa esistenza dello Stato, debbono avere il riconoscimento ed una tutela senza limitazioni e lesive regolamentazioni.

Pietro Giubilo




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