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02/12/2022
Gli effetti dell’inflazione su famiglie, imprese e Stato
Pensare di avere uno ‘spazio fiscale’ sulla base della logica di tassi d’interesse nominali inferiori al tasso di crescita del Pil è illusorio,

Mi è capitato di leggere che l’inflazione giova ai debitori e quindi, poiché lo Stato italiano ha un debito pubblico pari ad una volta e mezza il suo Pil, non ha che da trarre giovamento dall’inflazione visto che il valore reale del suo debito pubblico diminuisce. Questo risponde al vero ma per stabilire se lo Stato ci guadagni davvero abbiamo bisogno di una analisi più approfondita in quanto famiglie, imprese e Stato, hanno sia debiti che crediti nei loro ‘balance sheet’. Consideriamo dapprima una famiglia. Quest’ultima, con l’inflazione, vede eroso il potere di acquisto dei propri redditi nominali ma se questi non aumentano in linea con l’aumento dei prezzi, non coglie neppure il vantaggio della riduzione reale dei propri debiti che restano uguali rispetto ai propri redditi. Nel caso di una impresa, invece, con l’inflazione, si ha una riduzione del valore reale dei propri debiti ma non in tutti gli stati di natura. Ciò avverrà soltanto se i prezzi dei prodotti e dei beni che mette sul mercato, crescono in linea con l’inflazione. Altrimenti, il suo stato debitorio resta invariato. ‘Dulcis in fundo’ consideriamo lo Stato. Anche in questo caso abbiamo le stesse dinamiche viste in precedenza. Uno Stato, infatti, è favorito in termini reali dall’inflazione via il fiscal drag (la draga fiscale) ma nel contempo è chiamato a mettere sul piatto le risorse finanziarie per mitigare gli effetti negativi dell’inflazione su famiglie e imprese. L’inflazione all’inizio del processo contribuisce alla riduzione del rapporto debito/ Pil in quanto gonfia il Pil nominale almeno fino a quando i tassi d’interesse nominali che determinano la crescita del debito, rimangono inferiori al tasso di inflazione. Questo avviene nel breve periodo, o almeno fino a quando l’aumento dei tassi d’interesse praticato dalla Banca Centrale (per frenare l’inflazione) non si trasmette sull’intero stock del debito pubblico che ha scadenze scaglionate negli anni a venire.

Considerato che il debito pubblico italiano ha una scadenza media di sette anni e che entro il 2023 l’inflazione cumulata potrebbe raggiungere il 15%. Ne deriva che di tale misura potrebbe ridursi il valore reale dello stock di debito e nel contempo il valore reale dei crediti di coloro che l’hanno sottoscritto. Nel meccanismo che abbiamo illustrato non va dimenticato che le aspettative di inflazione svolgono un ruolo cruciale visto che determinano i tassi d’interesse nominali ai quali vengono effettuate le nuove emissioni di debito pubblico. Vediamo in che modo. Fino a quando le aspettative di inflazione restano al di sotto dell’inflazione effettiva, il risultato che ne consegue è una riduzione dei tassi d’interesse reali. L’importanza di tenere sotto controllo le aspettative da parte della BCE pertanto è utile non solo per scongiurare una spirale prezzi-salari ma anche ad ancorare i tassi d’interesse nominali ad un livello inferiore all’inflazione con un beneficio per il debito pubblico in essere. Tuttavia come accennato all’inizio lo Stato, al pari di famiglie ed imprese, non ha solo entrate fiscali ma anche spese (uscite). Più precisamente non gestisce solo gli stock di debiti e crediti ma anche i flussi di entrate e uscite da cui quegli stock dipendono. Nello specifico se dal lato delle entrate, lo Stato è favorito dall’inflazione a finanziare spese aggiuntive, poiché le entrate fiscali aumentano in quanto rapportate a basi imponibili nominali gonfiate dall’inflazione (draga fiscale), lo Stato nel contempo ed in un periodo successivo, vedrà le proprie spese aumentare perché acquista beni e servizi e paga stipendi, pensioni (rivalutati per l’inflazione) e sussidi di disoccupazione (in aumento per la recessione provocata dall’aumento dei tassi d’interesse).

Questo schema cosa comporta? Mentre nel breve periodo le maggiori entrate possono essere destinate al sostegno di famiglie e imprese falcidiate dall’inflazione senza alcun impatto sul deficit pubblico, col passare del tempo, lo Stato facendosi carico degli effetti negativi dell’inflazione sulle voci di spesa, non si potranno più fare trasferimenti senza compromettere la stabilità finanziaria dell’Italia. La politica economica però stando così le cose non è vincolata. L’unico modo per renderla efficace è intervenire, infatti, sulla ricomposizione della spesa pubblica. Non è pertanto consigliabile fare scostamenti di bilancio in quanto ciò implicherebbe che con ogni probabilità ci sarebbe un’inversione tra il livello effettivo di inflazione e quella attesa. In presenza di aumento dell’inflazione attesa da parte di famiglie ed imprese, infatti, i tassi d’interesse reali diverrebbero positivi e ci sarebbero problemi all’orizzonte. Pensare di avere uno ‘spazio fiscale’ sulla base della logica di tassi d’interesse nominali inferiori al tasso di crescita del Pil (la gradevole aritmetica monetarista) è illusorio, come la recente esperienza del Regno Unito ha insegnato a tutto il mondo. Decretando la morte della Moderna Teoria Monetaria: basata sulla possibilità di uno Stato sovrano di emettere tutto il debito pubblico necessario indipendentemente dalle condizioni di mercato. Si potrebbe passare repentinamente, infatti, dalla ‘gradevole aritmetica monetarista’ (nessun costo aggiuntivo del debito), a quella sgradevole (esplosione del debito pubblico) e viceversa nell’arco di qualche settimana.

Marco Boleo




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