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02/04/2021
Il Ppe non è più la casa dei “cattolici democratici”
un tempo se ne rammaricavano, oggi quasi ne godono

“Se Matteo Salvini e la Lega si avvicinassero al Ppe io sarei molto contento”. Questo passaggio di Enrico Letta alla presentazione del Rapporto Annuale Ispi, lo scorso 29 marzo, ha sicuramente avuto una certa eco sui media (e non poteva che essere così). Cronisti e commentatori politici, però, l'hanno molto schiacciato sul contingente. Varrebbe la pena d'inquadrarlo storicamente, invece, per comprendere l'azione di svuotamento identitario del popolarismo portati avanti da certo “cattolicesimo democratico”. Rimarcando, intanto, come siano stati e siano i segretari democrats di provenienza Ppi ad aver compiuto i passi più significativi per l'ingresso del Pd nell'alveo del socialismo europeo (con a giustificazione retorica la “foglia di fico” dell'aggiunta della parolina democratica all'eurogruppo). Una netta frattura (o forse no) rispetto allo sforzo che gli alfieri dei Popolari del Gonfalone, soprattutto Franco Marini e Guido Bodrato, a cavallo del nuovo millennio, fecero per preservare la natura democristiana del Partito Popolare Europeo (leggasi: tenerne fuori Silvio Berlusconi, prendendo a pretesto la contestazione alla sommatoria tattico-algebrica con i Conservatori inglesi). Tra l'una e l'altra posizione, alla fine ricondotte all'unità del disconoscimento dell'appartenenza alla famiglia politica europea di cui la Dc fu pensante socio fondatore, collante e catalizzatore il dogma bipolarista (e avverso all'ammissione di qualsivoglia natura non solo reattiva dell'unità politica dei cattolici) reso egemonico dal duo professorale Romano Prodi – Arturo Parisi. La coppia tecnocratico-dossettiana che, alle Europee del '99, fece scalciare ogni “memoria democratico-cristiana nel centro-sinistra” dall'Asinello maggioriarista e americaneggiante.

Facciamo qualche passo indietro. Partiamo da quando il Ppe era, per i catto-dem, la casa da cui tener fuori ospiti indesiderati. Gli anni in cui si esibiva il pedigree, non riconoscendo la decisività dell'istituzionalizzazione del berlusconismo (faccenda che ha dimostrato il suo rilievo dopo poco più di un decennio, in tutto l'arco temporale delle “maggioranze anomale”, da quella che appoggiò il governo Monti fino all'attuale a sostegno di Draghi). Gli anni della “delegazione democristiana” e del Gruppo Schuman insieme al democentrista francese François Bayrou, che si sono compiuti nell'abbandono - ai tempi rutelliani de La Margherita - in nome dell'imprescindibilità dell'alleanza che volgeva definitivamente in fusionismo.

Il Partito Popolare Europeo è diventato l'avversario. L'identità è diventata un fatto prima correntizio e poi meramente personale (nel senso che la salvezza di una cultura politica veniva fatta coincidere con la permanenza in posizioni di potere della propria persona). Rifiutando - addirittura! - la lettura almeno parzialmente positiva della diaspora che fu il ruinismo. Impendendo ogni possibile riaggregazione (ricucitura tra “cattolici del sociale” e “cattolici della morale”, per dirla con il cardinal Bassetti). Nemmeno nel montismo: in una sorta di convergenza parallela, nel 2013, il Pd sventolò “gli indipendenti cattolici” (Edo Patriarca, Ernesto Preziosi, Emma Fattorini, Flavia Nardelli) mentre, in Scelta Civica, Lorenzo Dellai e Andrea Ricciardi impedivano allargamenti verso i popolari di centrodestra e adesioni esplicite alla carta valoriale del Ppe.

Ci si fece, quindi, tornando al Pd, senza colpo ferire eurosocialisti (e democratici). Prima fu Dario Franceschini, di cui con intelligente malignità Francesco Cossiga ricordava sempre la breve stagione nei Cristiano Sociali di Pierre Carniti ed Ermanno Gorrieri, a spiegare come “Il Partito democratico cercherà di costruire un luogo e un gruppo in cui ci siano le forze che vengono dalla tradizione socialista insieme ad altre forze come i democratici italiani e altri che appartengono all'area progressista" (eravamo alla vigilia delle consultazioni per l'Europarlamento del 2009). Venne il rottamatore Matteo Renzi, il più pop degli ex Popolari, che fece aderire con un voto quasi senza dibattito al Pse il suo Pd (aggettivo possessivo da leggersi nel senso più radicale del termine, ricordate il Pdr di cui parlava Ilvo Diamanti?).

Oggi è il tempo dell'allievo di Beniamino Andreatta (e di Romani Prodi, ancora) che vede il Ppe come l'altro europeismo a cui consegnare una Lega perché si possa presto tornare all'obbligato bipolarismo. Non a caso, una volta richiamato al Nazareno come salvifico “podestà straniero”, un unico incarico dei precedenti ha voluto trattenere per sé l'Istituto Jacques Delors. Il “socialista cattolico” che fu la dimostrazione di come nelle forze della sinistra, richiamando ancora una sentenza del Picconatore, “non sia possibile alcuna presenza organizzata dei cattolici, ma solo testimonianze individuali dei valori”.

Il Ppe non è più la casa dei “cattolici democratici”. Un tempo se ne rammaricavano, oggi quasi ne godono. Per ragioni in fondo simili, in una certa continuità a volerla dire tutta.

Marco Margrita




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