Siamo formalmente usciti dalla fase emergenziale della pandemia Coronavirus, ma restiamo immersi nella crisi che questa ci consegna come interpellante circostanza. “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità” (n. 21). Così Benedetto XVI nella sua enciclica “Caritas in Veritate”, scritta nel 2009, cioè al tempo di un'altra crisi (in cui, in realtà, ci stiamo ancora dibattendo).
In che senso, accogliendo l'indicazione metodologica di papa Ratzinger, è quindi auspicabile riprogettare il cammino?
Da diverse parti, soprattutto da quelle del Governo ma non solo, si cerca di imporre una nuova stagione di centralismo statalista, con una delegittimazione delle autonomie locali e una riduzione a strumento dei corpi intermedi. L'idea è un governare senza società, con un'atrofizzazione della sussidiarietà reale. Una scenario davvero nefasto. Come ha opportunamente posto in risalto il sociologo Riccardo Moro, infatti, “La crisi innescata dal Coronavirus ha mostrato che una divisione netta del lavoro tra società e Stato, dinanzi a catastrofi di tale portata, non è un vantaggio ma uno svantaggio per tutti: se c’è una cosa che abbiamo capito, in questo periodo, è che il ruolo della guida pubblica, purché illuminata, e di conseguenza dello Stato è cruciale. Se non ci può più essere un’ingenua suddivisione dei lavori fra società e Stato, ancor meno possiamo permetterci una visione strumentale della sussidiarietà. Al contrario, è proprio il significato costituzionale della sussidiarietà che dobbiamo approfondire e riscoprire di fronte a dei compiti che sono nuovi”. Il significato costituzionale porta in campo “una relazione a valore aggiunto tra i cittadini comunque organizzati e le istituzioni della Repubblica. Una relazione che può assumere le forme della collaborazione”. La “sussidiarietà circolare” frequentemente evocata dal professore Stefano Zamagni, insomma.
Si tratta di riscoprire il territorio, e le sue Istituzioni, come ambito di cura delle relazioni e di resilienza praticata, in ultimo di ri-generazione e di ri-abilitazione. Basta guardare all'esempio rappresentato dall'operato di tanti amministratori locali in questi difficili mesi per riconoscerne il loro essere fattore innescanti una “comunità di cura”. Non si può immaginare una svolta dirigista e burocratica, piuttosto si deve accompagnare il poliedrico allearsi delle energie vitali, partendo dalla base. Prendendosi cura, così, anche della rappresentanza. Puntando sulle esperienze positive, che ci sono certamente.
Riferendosi allo specifico della Sanità, ma la considerazione ha una validità ben più generale, ha scritto Benedetto Saraceno, Segretario Generale del Lisbon Institute of Global Mental Health: “Dobbiamo fare attenzione a non enfatizzare troppo questa idea/speranza/illusione che la dimensione “global” sia onnipotente. È ingannevole ritenere che siano gli interventi globali quelli che avranno un impatto locale sulle singole comunità. In parte tale impatto ci sarà, certamente. Ma è il “local” che andrà ripensato, costruito, radicalmente innovato e potenziato perchè se è vero che la dimensione globale è potente è anche vero che quella locale è reale”.
Ripartire dal reale, cioé dalla communities. Non evadere dalla responsabilità, “sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’esser buono” (T. S. Eliot).
Marco Margrita