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12/11/2020
Trump ha perso ma non il “trumpismo”
Le elezioni presidenziali americane hanno riservato numerose sorprese

Prevedere che sarebbe finita tra avvocati, accuse di brogli e possibili incidenti non era difficile. Bastava conoscere un po’ il sistema elettorale e non credere alla grande onda blu, che c’è stata, eccome, ma è stata più che compensata dalla marea rossa. Una cosa si può dire: l’America non ha rifiutato Trump, così come l’Italia non rifiutò Berlusconi nel 2006.

Cari amici io quella giornata me la ricordo perfettamente. Partita con i sondaggi che davano all’Unione da quattro a sei punti di vantaggio agli exit poll, trasformatasi poi in una agonizzante conta all’ultima scheda, comprese quelle deposte in assenza dagli italiani all’estero, prima che un rantolante Romano Prodi arrivasse a dire “Abbiamo vinto” e Berlusconi si mettesse a parlare di brogli pur avendo il suo Pisanu titolare del Viminale. In piccolo lo stesso dramma che hanno vissuto gli Stati Uniti, con in meno la complicazione folle del loro sistema elettorale, i ricorsi giudiziari e alcune centinaia di milioni di armi allineate nelle rastrelliere.

Trump ha avuto più voti di qualsiasi altro candidato perdente nella storia americana, ma ha avuto anche più voti di qualsiasi candidato vincente, eccetto Biden. Più di quanti ne ebbe Barack Obama, tanto per capirsi. E dove perderà, quando la polvere delle polemiche si sarà deposta, avrà perso di poche migliaia, forse poche centinaia di voti. Non solo. La sconfitta alle presidenziali si accompagna ad una sostanziale vittoria alle “politiche”. Il Senato resta un miraggio per i democratici, che hanno anche perso molti seggi, pur mantenendo la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti. Di fatto Joe Biden è fin dal primo momento della sua presidenza quella che in gergo si chiama “l’anatra zoppa”, così come zoppo fu Prodi alla mercé dei Turigliatto, dei De Gregorio e dei Mastella.

Il plebiscito per Trump è dato dall’identificazione del suo elettorato nel suo messaggio, nel suo stile, nella sua mission. Tutto ciò, secondo me, potrebbe modificare una delle grandi caratteristiche della politica americana: il destino del perdente. Con l’eccezione di Richard Nixon, sconfitto nel ’60, vincitore otto anni dopo, ma ci volle il Vietnam e la paura del ’68, da quando in America vige la regola dei due mandati, il presidente sconfitto al rinnovo o lo sfidante battuto nelle urne sono destinati ad una sorta di oblio.

Goldwater, Humprey McGovern, Mondale, Dukakis, Dole, Hillary Clinton: chi erano costoro, dove sono, cosa hanno fatto dopo? E Ford, Carter, Bush senior, figure da rispolverare solo in occasione di funerali o inaugurazioni di biblioteche presidenziali. Ma come mettere su uno scaffale Trump? Il repubblicano più votato della storia? L’uomo che se ne andrà dopo aver combattuto battaglie giudiziarie, ripetendo di essere stato truffato, lui e i suoi elettori. Elettori che sono assolutamente disposti a credergli, che gli credono e che dalla sconfitta trarranno la convinzione assoluta che le loro paure, le loro paranoie, il loro complottismo erano giusti, corretti, verificati. Ecco il “trumpismo” rimarrà.

Gli Usa sono da quasi un trentennio una democrazia famigliare. La famiglia Clinton, la famiglia Bush, la famiglia Obama di cui Biden è figlio adottivo. Non dimentichiamoci come Sleepy Joe è arrivato dove è arrivato. La sua candidatura era sostanzialmente morta dopo i primi due o tre turni di primarie. Poi risuscitato dalla macchina democratica.

Come quindi prendersela con gli elettori repubblicani se dovessero pensare che il candidato giusto tra quattro anni sia di nuovo the Donald, o qualcuno che lui stesso indicherà, magari in famiglia. Un’ombra pesante avvolge quindi gli Stati Uniti, bisognosi come non mai di una politica forte, come è stata forte quella di Trump, come è sempre forte la politica della destra che non si cura minimamente di turbare gli oppositori quando, dall’Ungheria alla Polonia, dalla Gran Bretagna al Brasile fino al nostro Paese, le urne sono loro favorevoli.

Saranno quattro anni lunghissimi.


Luca Cappelli




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