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31/07/2020
Il lavoro: misura della ripresa
Non possiamo accettare che i condizionamenti di sistema continuino a pesare sulla nostra ricchezza reale, cioè il lavoro, che per noi è cultura, storia civile, affermazione di valori e certezze per le prossime generazioni

Non possiamo accettare che i condizionamenti di sistema continuino a pesare sulla nostra ricchezza reale, cioè il lavoro, che per noi è cultura, storia civile, affermazione di valori e certezze per le prossime generazioni.

L’intervista del Presidente di Confindustria al Corriere della Sera ha il pregio di indicare come la questione del lavoro sia l’indicatore del reale passaggio alla fase due, cioè al superamento del solo intervento assistenziale a fronte degli effetti sul piano economico produttivo dell’epidemia.

Certo la richiesta di Carlo Bonomi di eliminare il blocco dei licenziamenti non solo appare socialmente dannosa, ma rischiosa a fronte delle pesanti incertezze che ancora pesano sulla prospettiva di una reale ripresa. La logica imprenditoriale sostiene che “col divieto di licenziamenti non può ristrutturare”, ma un allentamento degli ammortizzatori sociali può intervenire laddove ci siano evidenti segnali di inversione del ciclo, altrimenti, non solo si amplierebbe di centinaia di migliaia l’esercito dei disoccupati, ma la stessa domanda interna, insieme ai consumi, già compressi, cadrebbe ulteriormente. Manca una strategia del governo in questa direzione, con un sistema di incentivi fiscali che accompagni chi intenda investire nell’azienda per irrobustirne la ripresa.

Non vi è dubbio, comunque, che la finalità dell’azione di governo e la realizzazione delle riforme invocate da Bruxelles, insieme ai progetti di sviluppo sulle nuove strade dell’informatizzazione e dell’ambiente, devono essere misurati sulla capacità di creare lavoro nuovo, senza abbandonare quel complesso ambito di imprenditorialità di territorio che caratterizza vaste zone del sistema economico italiano.

Viene invocata dal Presidente degli industriali “una riforma del lavoro”, ma vi sono delle questioni preliminari che devono trovare soluzione in modo che le disponibilità finanziarie che giungeranno dall’Europa non rimangano sulla carta, come spesso è avvenuto.

Si deve considerare che, con le attuali normative, solo una parte delle risorse riconosciute all’Italia viene spesa, figuriamoci con l’afflusso previsto con il Mes o il Recovery Fund. L’ obbiettivo più immediato deve essere, di conseguenza, una riforma delle norme di carattere amministrativo, comprese anche quelle procedure che allungano i tempi della giustizia civile, per accelerare l’azione decisionale per quanto riguarda gli investimenti pubblici. Gli interventi infrastrutturali che si sono realizzati in Italia negli ultimi anni hanno trovato impedimenti di ogni genere, frutto di una moltiplicazione dei centri decisionali e, a volte, di una cultura scettica sulla necessità di una modernizzazione del Paese che si realizzi con interventi che implichino trasformazione dei territori.

Anche sotto il profilo fiscale il lavoro in Italia non può continuare a sopportare il peso di un cuneo fiscale che, insieme alla Francia, è tra i più elevati al mondo. Senza contare l’impatto della fiscalità generale.  Molte attività imprenditoriali di grande dimensione hanno superato questo ostacolo, a danno del Paese, spostando la sede legale delle loro attività all’estero, ma la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese che vive per il suo rapporto con il territorio, subisce un condizionamento che diventa sempre meno sopportabile. Tutto ciò avviene mentre dovrebbe essere incentivata la logica distrettuale che fa vivere l’attività manifatturiera e che, oltre a rappresentare un punto di forza della nostra economia, anche come capacità di esportazione, rappresenta, come spiegano economisti della Università di Tor Vergata e del Politecnico di Milano una “sintesi tra capitale umano e sapere artigianale… come competenza diffusa da sostenere per garantire l’autonomia produttiva del nostro Paese”. 

Nello stesso tempo, accanto agli interventi di tutela e la prosecuzione della Cassa integrazione speciale, devono essere avviate politiche attive del lavoro, utilizzando strumenti innovativi e più efficaci, anche in collegamento con i privati, con un forte contenuto formativo, rispetto alla esperienza del reddito di cittadinanza, che ha svolto solo una finalità assistenziale.

Il lavoro è anche il tema reale della questione del Meridione - dove la disoccupazione raggiunge indici drammatici - della quale ci siamo dimenticati in questi anni confusi. E’ un altro punto essenziale per riprendere la strada interrotta del recupero del Sud, che non potrà non far parte dei progetti da attuare con i nuovi fondi europei. Una logica di intervento che l’Europa deve potenziare è quella della coesione territoriale. A partire dal recupero del gap infrastrutturale, senza dimenticare un sistema di fiscalità di vantaggio per gli imprenditori del Mezzogiorno. Senza timori o remore nel riportare la piena legalità, cogliendo le opportunità dei successi ottenuti nei riguardi della criminalità organizzata.
Vi sono infine ragioni storiche che fanno comprendere come il lavoro sia la misura della ripresa non solo economica dell’Italia; “lavoro, lavoro, lavoro”, come nell’appello della Presidente Elisabetta Casellati. 

Una nazione come l’Italia, priva di capitali e di materie prime, ma anche, nella sua storia -  ricordiamocelo con orgoglio -  di vasti e ricchi possedimenti coloniali, ha potuto crescere ed affermarsi, non solo recentemente entrando tra i massimi Paesi manifatturieri, ma anche nel lontano passato, per la capacità di lavorare e creare lavoro. Non abbiamo avuto una “rivoluzione industriale”, ciò ha prodotto ritardi, ma ha anche impedito certe degenerazioni sociali. C’è un nesso, tipicamente italiano, tra impresa e lavoro che non si esprime solo nel modello familiare, che peraltro ha potuto raggiungere livelli di competitività internazionali, ma che mostra un segno civile sempre importante ed attuale.
Anche la cultura liberista più avvertita, probabilmente a contatto con il pensiero sociale cristiano (quel “non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce) ha riconosciuto che il lavoro non dipende unicamente dalle logiche del mercato, ma possiede un valori in quanto tale. Tre anni fa fu lo stesso Papa Francesco a citare una significativa frase di Luigi Einaudi, di cui ci piace ricordare le assonanze di pensiero con Costantino Mortati alla Costituente: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nelle propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con gli altri impegni”.

Non possiamo accettare che i condizionamenti di sistema, di cui abbiamo dato alcune sommarie indicazioni, continuino a pesare sulla nostra ricchezza reale, cioè il lavoro, che per noi è cultura, storia civile, affermazione di valori e certezze per le prossime generazioni. L’auspicio è quello che le forze politiche ed il governo decidano la strada da intraprendere tenendo conto di questa nostra peculiarità per riaffermare, in definitiva, il nostro ruolo in una Europa che sembra riprendere consapevolezza del suo futuro politico.

Pietro Giubilo




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