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30/04/2020
Crisi e lavoro glocale
Il lavoro o avrà una dimensione glocale o rischia di essere travolto/svalutato

L’epidemia del coronavirus ha rafforzato la consapevolezza della nostra debolezza con un drammatico shock che ci ha scoperti nuovamente vulnerabili e fortemente interdipendenti ciascuno dall’altro, in un pianeta che è sempre di più comunità globale”. Una puntuale descrizione, quella contenuta nel messaggio per il Primo Maggio diffuso dalla Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace.

Bisogna intendersi, però, sulla qualità di quell'interdipendenza e su quale globalità (e globalizzazione). Specialmente ora che ci troviamo immersi in un frangente che universalmente ferisce.

Partiamo dalla seconda questione. Ci viene in aiuto papa Francesco, che sul tema è più volte intervenuto, proponendo le due immagini geometriche della sfera e del poliedro. Parlando alla comunità degli immigrati ispanici in occasione del suo viaggio negli States del 2015, ha chiarito che “La globalizzazione non è cattiva, al contrario, la tendenza alla globalizzazione è buona, ci unisce; quello che può essere cattivo è il modo di farla. Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, quella globalizzazione spezza la ricchezza e la particolarità di ogni popolo”. Diversa la faccenda, richiamò il Santo Padre in quell'intervento, “se una globalizzazione cerca di unire tutti, ma rispettando ogni persona, la sua persona, la sua ricchezza, la sua peculiarità, ogni popolo, quella globalizzazione è buona e ci fa crescere tutti e porta alla pace”. Insomma: “se la globalizzazione è una sfera nella quale ogni punto è uguale, equidistante dal centro, annulla, non è buona; se, invece, la globalizzazione unisce, come un poliedro nel quale tutti sono uniti e ognuno conserva la propria identità, allora è buona e fa crescere un popolo, e dà alle persone dignità e le conferisce dei diritti”.

Si può arrivare, quindi, a comprendere quale tipo di interdipendenza è bene coltivare: una relazione poliedrica consapevole che “ciò che è veramente tipico è anche universale”, per richiamare una celebre espressione del poeta Wystan H. Auden.

In tutto questo centrale è la questione del lavoro. Come ha fatto notare Giulio Sapelli nel suo recente instant book “Pandemia e resurrezione”, infatti, “La crisi attuale pone il problema del lavoro, unitamente al tema digitale, al centro della riproduzione della società in forma omeostatica con la difesa della salute e mai in forma separata: questa è la tendenza che prevarrà se vogliamo sopravvivere e che fa apparire l’incompetenza e i conflitti di interesse come residui manifesti di un mondo che muore”. Per il professore la sfida per il capitalismo, “se vuole sopravvivere” è “cambiarsi per conservarsi, rispetto al tema del lavoro, riconducendo la tecnologia al ruolo più corretto di supporto al lavoro umano, elemento base del valore per ogni organizzazione. Emergerà, se ritroveremo la forza di piegarci sullo studio e sulla meditazione morale e filosofica metafisica, il concetto stesso di comunità”.

Il lavoro, insomma, o avrà una dimensione glocale o rischia di essere travolto/svalutato. Una sfida su cui i corpi intermedi, nel pensare comune e nell'agire sinergico, possono trovare una loro funzione. Un lavoro di comunità. E comunità al lavoro.

Marco Margrita
 




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