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17/04/2020
Come uscire dall’isolamento della pandemia... E quali riflessi sull’economia?
Accontentarsi di dotarsi di mascherine ed enzimi per il prossimo futuro equivarrebbe a trattare solo il sintomo: il male è molto più profondo ed è la sua radice che deve essere medicata

Se gli operatori sanitari si ammalano c’è il rischio del collasso del sistema ospedaliero, come sembra stia accadendo in Italia a Bergamo, Brescia e in misura minore a Milano. E’ quindi necessario che lo Stato promuova la diffusione di farmaci anti o retro virali, in modo da consentire molto rapidamente, ovunque, di alleviare il carico del sistema ospedaliero sull’orlo del tracollo. E che i cittadini di tutti i Paesi mostrino finalmente senso di responsabilità.
Perché il confinamento sia rigoroso, insieme ai noti comportamenti elementari di igiene personale, tutti devono comprenderne il significato e l’utilità. Il confinamento rallenta efficacemente la diffusione del virus e - ripetiamolo -, in assenza di un sistema di screening, rimane la strategia meno negativa a breve termine.

Tuttavia, se ci fermiamo a esso, diventa inutile: se usciamo dal confinamento, diciamo, tra un mese, il virus sarà ancora in circolazione e causerà gli stessi decessi di quelli che avrebbe causato oggi in assenza di contenimento.
Attendere, attraverso l’isolamento, che la popolazione si immunizzi, più o meno la strategia inizialmente proposta da Johnson, ma “a casa” - richiederebbe mesi di confinamento.

Per capirlo, è sufficiente tornare al parametro essenziale di una pandemia, Ro, il “numero di riproduzione di base”, ossia il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto. Finché Ro è maggiore di 1, vale a dire fino a quando un individuo infetto può contagiare più di una persona, il numero di persone infette aumenta in modo esponenziale. Se lasciamo il contenimento senza ulteriori indugi prima che Ro scenda al di sotto di 1 avremmo quelle centinaia di migliaia di morti che la pandemia ha minacciato di causare sin dall’inizio.

Tuttavia, affinché l’immunizzazione collettiva porti Ro al di sotto di 1 è necessario immunizzare circa il 50%della popolazione, cosa che - dato il tempo medio di incubazione (5 giorni) - richiederebbe probabilmente più di 5 mesi di reclusione, se ipotizziamo che ci sia oggi un milione di infetti. Un’opzione insostenibile in termini economici, sociali e psicologici. E’ l’intero sistema di produzione dei nostri Paesi che collasserebbe, a partire dal nostro sistema bancario, che è estremamente fragile. Per non parlare del fatto che, in questo momento, i più poveri tra noi - rifugiati, persone di strada ecc. - sono costretti a morire non a causa del virus, ma perché non possono sopravvivere senza una società attiva.

Senza dimenticare inoltre che non abbiamo alcuna garanzia che i nostri circuiti di approvvigionamento alimentare possano resistere allo shock della quarantena per un tempo così lungo: vogliamo costringere i lavoratori a reddito medio/basso a mettere a rischio la propria vita per continuare, per esempio, a trasportare il cibo per i dirigenti che rimangono tranquillamente a casa o nella loro tenuta di campagna? E’ quindi necessario organizzare una “prima” liberazione del contenimento, al più tardi tra qualche settimana. Prendere questo rischio collettivamente ha senso però solo a una condizione: applicare, questa volta, la strategia adottata in Corea del Sud e Taiwan con il massimo rigore. Il tempo che stiamo guadagnando chiudendoci in casa dovrebbe servire per:

- Riportare Ro (che probabilmente era circa 3 all’inizio del contagio) il più vicino possibile a 1;
- Incoraggiare la riconversione di alcuni settori economici, per produrre in serie i ventilatori polmonari di cui ora hanno bisogno le terapie intensive per salvare vite umane;
- Consentire i laboratori occidentali di produrre subito apparecchiature e materiali di screeening, mentre si organizzano per realizzare in poche settimane il sistema necessario. Al momento ci sono due enzimi, in particolare, le cui scorte sono molto insufficienti, e quindi limitano la nostra capacità di effettuare screening;
- Produrre le mascherine di protezione, essenziali per frenare la diffusione del virus quando lasciamo la casa.

Se porremo fine al nostro confinamento collettivo quando i nostri mezzi di rilevazione non saranno pronti o mancheranno le mascherine, correremo nuovamente il rischio di una tragedia. Sfortunatamente, oggi è impossibile misurare Ro. Pertanto, dobbiamo attendere fino a quando non saremo organizzati per lo screening e pianificare l’uscita ordinata dalla quarantena il più rapidamente possibile.

Cosa succederà a quel punto? Coloro che vengono “liberati” devono essere sottoposti a screening sistematico e indossare le mascherine per diverse settimane. Altrimenti, l’uscita dal confinamento avrà un esito peggiore di quello dell’inizio della pandemia.

Coloro che sono ancora positivi verranno quindi messi in quarantena, insieme al loro entourage. Altri possono andare a lavorare o riposare altrove. I test dovranno continuare per tutta l’estate per essere sicuri che il virus è stato sradicato all’arrivo dell’autunno.

LA SALUTE COME BENE COMUNE GLOBALE

La pandemia ci sta costringendo a capire che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi e a ripensare completamente il modo in cui produciamo e consumiamo, perché questa pandemia non sarà l’ultima. La deforestazione - così come i mercati della fauna selvatica di Wuhan - ci mette in contatto con animali i cui virus non ci sono noti. Lo scongelamento del permafrost minaccia di diffondere pericolose epidemie, come la spagnola del 1918, l’antrace, ecc.. Lo stesso allevamento intensivo facilita la diffusione di epidemie.

A breve termine, dovremo nazionalizzare le imprese non sostenibili e, forse, alcune banche. Ma molto presto dovremo imparare la lezione di questa dolorosa primavera: riconvertire la produzione, regolare i mercati finanziari; ripensare gli standard contabili, al fine di migliorare la resilienza dei nostri sistemi di produzione; fissare una tassa sul carbonio e sulla salute; lanciare un grande piano di risanamento per la reindustrializzazione ecologica e la conversione massiccia alle energie rinnovabili.

La pandemia ci invita a trasformare radicalmente le nostre relazioni sociali. Oggi il capitalismo conosce “il prezzo di tutto e il valore di niente”, per citare un’efficace formula di Oscar Wilde. Dobbiamo capire che la vera fonte di valore sono le nostre relazioni umane e quelle con l’ambiente. Per privatizzarle, le distruggiamo e roviniamo le nostre società, mentre mettiamo a rischio vite umane. Non siamo monadi isolate, collegate solo da un astratto sistema di prezzi, ma esseri di carne indipendenti con gli altri e con il territorio. Questo è ciò che dobbiamo imparare nuovamente. La salute di ciascuno riguarda tutti gli altri. Anche per i più privilegiati, la privatizzazione dei sistemi sanitari è un’opzione irrazionale: essi non possono restare totalmente separati dagli altri, la malattia li raggiungerà sempre. La salute è un bene comune globale e deve essere gestita come tale.

I “beni comuni”, come li ha definiti in particolare l’economista americana Elinor Ostrom, aprono un terzo spazio tra il mercato e lo Stato, tra il privato e il pubblico. Possono guidarci in un mondo più resiliente, in grado di resistere a shock come quello causato da questa pandemia. 

La salute, ad esempio, deve essere trattata come una questione di interesse collettivo, con modalità di intervento articolate e stratificate. A livello locale, per esempio, le comunità possono organizzarsi per reagire rapidamente, circoscrivendo i cluster dei contagiati da Covid 19. A livello statale, è necessario un potente servizio ospedaliero pubblico. A livello internazionale le raccomandazioni dell’OMS prima e durante la crisi. Siamo più disposti ad ascoltare i consigli del Fondo monetario internazionale (FMI) che quelli dell’OMS. Lo scenario attuale dimostra che abbiamo torto.
In questi giorni abbiamo assistito alla nascita di diversi “beni comuni”: come quegli scienziati che, al di fuori di qualsiasi piattaforma pubblica o privata, si sono coordinati spontaneamente attraverso l’iniziativa OPEN COVID19 per mettere in comune le informazioni sulle buone pratiche di screening dei virus.

Ma la salute è solo un esempio: anche l’ambiente, l’istruzione, la cultura, la biodiversità sono beni comuni globali. Dobbiamo immaginare istituzioni che ci permettano di valorizzarli, di riconoscere le nostre interdipendenze e rendere resilienti le nostre società.

Alcune organizzazioni del genere esistono già. La Drugs for Neglected Disease Iniziative (Dndi) è un eccellente esempio. Un organismo creato da alcuni medici francesi 15 anni fa per il reperimento dei farmaci per le malattie rare o dimenticate: una rete collaborativa di terze parti, in cui cooperano il settore privato, quello pubblico e le ONG, che riesce a fare ciò che né il settore farmaceutico privato né gli Stati né la società civile possono fare da soli. 

A livello individuale poi scopriamo la paura della scarsità dei beni. Ciò può essere un aspetto positivo in questa crisi? Essa ci libera dal narcisismo consumistico, dal “voglio tutto e subito”. Ci riporta all’essenziale, a ciò che conta davvero: la qualità delle relazioni umane, la solidarietà. Ci ricorda anche quanto sia importante la natura per la nostra salute mentale e fisica. Coloro che vivono rinchiusi in 15 mq a Parigi o a Milano lo sanno bene. Il razionamento imposto su alcuni prodotti ci ricorda la limitatezza delle risorse.

Benvenuti in un mondo limitato! Per anni i miliardi spesi per il marketing ci hanno fatto pensare al nostro pianeta come a un gigantesco supermercato, in cui tutto è a nostra disposizione a tempo indeterminato. Ora proviamo brutalmente il senso della privazione. E’ molto difficile per alcuni, ma può essere un’occasione di risparmio.

Sulla scia dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, vogliamo sperare che questa pandemia sia un’opportunità per indirizzare le nostre vite e le nostre istituzioni verso una felice sobrietà e verso il rispetto per la finitudine del nostro mondo. Il momento è decisivo: si può temere quella che Naomi Klein ha definito “la strategia dello shock”. Alcuni governi non devono, con il pretesto di sostenere le imprese, indebolire ulteriormente i diritti dei lavoratori; o, per rafforzare ulteriormente la sorveglianza della polizia sulle popolazioni, ridurre permanentemente le libertà personali.

NEL FRATTEMPO COME SI SALVA L’ECONOMIA?

Proviamo ad ipotizzare in questa situazione alcune possibili scelte di politica economica:

1) Iniettare liquidità nell’economia reale: Alcuni economisti tedeschi prevedono un calo del PIL in Germania del 9% nel 2020. Il dato è ragionevole e ci sono pochi motivi per cui le cose possano andare diversamente in Francia e, anche peggio, in Italia, Inghilterra, Svizzera e Paesi Bassi. Ciò dovrebbe indurre Germania e Olanda - i fautori della convinzione secondo la quale una maggiore austerità di bilancio aggiusta l’economia, mentre la macroeconomia più elementare dimostra il contrario - a rivedere i loro dogmi, se ancora l’escalation di vittime nei rispettivi Paesi non bastasse a far aprire loro gli occhi. Negli Stati Uniti, Donald Trump e il suo segretario al Tesoro Steven Mnuchin propongono al Congresso di distribuire un assegno di 1200 dollari a ciascun cittadino statunitense. Sono un po’ “soldi dall’elicottero” o, supponendo che la Banca Centrale si occupi di questo problema monetario, un “quantitative easing” per le persone. Misure che, eventualmente, avrebbero dovuto già essere state prese nel 2009. Possiamo anche vedere nell’iniziativa dell’amministrazione Trump l’abbozzo di un reddito minimo universale per tutti. Una proposta che è stata avanzata da molti per lungo tempo. In Europa la sospensione delle regole del Patto di Stabilità, l’emissione di obbligazioni corona o l’attivazione di prestiti del Meccanismo europeo di stabilità sono tutte misure essenziali.
2) Creare posti di lavoro. Tuttavia, le iniziative appena menzionate sono insufficienti. E’ necessario comprender che il sistema di produzione occidentale è o sarà parzialmente bloccato. A differenza del crollo del mercato azionario del 1929 e della crisi dei mutui subprime del 2008 questa nuova crisi colpisce innanzitutto l’economia reale. Nella maggior parte delle aziende, al 30% dei dipendenti ai quali venisse impedito di lavorare non corrisponderebbe il 30% in meno della produzione, ma una produzione pari a zero. Se un’azienda inserita in una catena del valore smette di produrre, l’intera catena viene interrotta Stiamo constatando che le catene di approvvigionamento just in time, ossia senza scorte, ci rendono estremamente fragili. Il lavoro è involontariamente in sciopero. Non siamo solo di fronte a una carenza keynesiana della domanda - perché chi ha i contanti non può spenderli dal momento che deve stare a casa - ma di fronte anche a una crisi dell’offerta. Questa pandemia ci introduce, dunque, in un tipo di crisi nuovo e senza precedenti, in cui si uniscono il calo della domanda e quello dell’offerta. In tale contesto l’iniezione di liquidità è tanto necessaria quanto insufficiente. Solo lo Stato, perciò, può creare nuovi posati di lavoro capaci di assorbire la massa di dipendenti che, quando usciranno finalmente di casa, scopriranno di aver perso il lavoro. L’idea dello Stato come datore di lavoro di ultima istanza non è neppure nuova: è stata studiata molto seriamente dall’economista britannico Atkinson. Naturalmente, affinché ciò abbia un senso, dobbiamo seriamente pensare al tipo di settori industriali per i quali vogliamo favorire l’uscita dal tunnel. Questo discernimento dev’essere fatto in ciascun Paese alla luce delle caratteristiche specifiche di ciascun tessuto economico. Ovviamente, il loro debito pubblico aumenterà. Ma il deficit sarebbe molto più grande in assenza di ingenti spese da parte dello Stato per salvare l’economia.

RICOSTRUIRE E SALVARE L’ECONOMIA

A questo punto un possibile errore sarebbe quello di apprezzare l’efficacia dell’autoritarismo come soluzione. E se le nostre democrazie fossero scarsamente pronte? Troppo lente? Bloccate dalle libertà individuali? Questo ritornello già risuonava prima della pandemia. Se consideriamo la Cina, la situazione sta sicuramente migliorando, ma l’epidemia non è stata ancora sconfitta, neppure a Wuhan.

Una volta abbandonato il contenimento in maniera controllata, un’altra pericolosa trappola sarebbe quella di limitarci a ripristinare semplicemente il modello economico di ieri, accontentandoci di migliorare in modo marginale il nostro sistema sanitario per far fronte alla prossima pandemia.

E’ urgente capire che la pandemia Covid 19 non solo non è un cosiddetto “cigno nero” - era perfettamente prevedibile, sebbene non sia tata affatto prevista dai mercati finanziari onniscienti - ma non è nemmeno uno shock esogeno.

In termini di evoluzione biologica, per un virus è molto più efficace infettare gli esseri umani che la renna artica, già in pericolo a causa del riscaldamento globale. E questo sarà sempre più così perché la crisi ecologica decimerà altre specie viventi.

E’ soprattutto la distruzione della biodiversità, in cui siamo da tempo impegnati, a favorire la diffusione del virus. Oggi molti ne sono consapevoli: la crisi ecologica ci garantisce pandemie ricorrenti.

Accontentarsi di dotarsi di mascherine ed enzimi per il prossimo futuro equivarrebbe a trattare solo il sintomo. Il male è molto più profondo, ed è la sua radice che deve essere medicata. La ricostruzione economica che dovremo realizzare dopo essere usciti dal tunnel sarà l’occasione inaspettata per attuare la trasformazione che, anche ieri, sembrava inconcepibile a coloro che continuano a guardare al futuro attraverso lo specchietto retrovisore della globalizzazione finanziaria. Abbiamo bisogno di una reindustrializzazione verde, accompagnata da una relocalizzazione di tutte le nostre attività umane.

Ma, per il momento, e per accelerare la fine della crisi sanitaria, è necessario fare ciò che è possibile, e dunque proseguire negli sforzi per schermare e proteggere la popolazione.

 

Michele Cutolo




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