PRIMO PIANO
22/01/2020
Intervista al Prof. Lorenzo Ornaghi
Rilasciata per il prossimo numero di Traguardi Sociali

Guardando allo scenario politico nazionale nel suo complesso, lo ha scritto nell'editoriale dello scorso numero il presidente Costalli, la sensazione è quella di una sorta di stand by. Tanto rispetto alle questioni interne quanto alle sempre più complesse sfide sul contesto globale, gli attori di governo e d'opposizione sembrano tutti prigionieri della mera volontà di sopravvivenza, sospesi e privi di un'idea complessiva del ruolo e delle prospettive per l'Italia. Una lettura troppo pessimistica?

Lettura del tutto corretta. Anzi, la domanda evidenzia già, anche in questo caso correttamente, le due rispettive manifestazioni principali e più preoccupanti dello stand by del sistema partitico e dello stato di ‘sospensione’ in cui si trova non soltanto il sistema politico, ma forse l’intero Paese. Gli attori principali dell’attuale sistema partitico sono infatti succubi della necessità, e mossi dall’istinto più o meno affinato dall’esperienza, di dover sopravvivere con ogni mezzo e ad ogni costo. L’altissima frequenza delle varie tornate elettorali non concede che pause brevissime della mobilitazione con cui i partiti cercano di inseguire o modificare gli orientamenti di voto. I quali orientamenti, registrati da una miriade di sondaggi (ossia da uno dei principali ‘indotti’ della politica odierna), vengono consultati dai partiti con un’attenzione o un’apprensione di gran lunga superiori a quelle con cui solitamente si prende nota degli elementi più critici in un malato assai grave. Un po’ per celia e un po’ sul serio, potremmo dire che il sistema partitico italiano sta tornando al sistema proporzionale per non essere soffocato dall’eccesso di un balzano bipolarismo. Ossia la serrata e inconcludente competizione, la litigiosa polarizzazione, fra i partiti che, con qualche ragione o brancolando dietro qualche illusione, si aspettano di incrementare la propria raccolta di voti e quei partiti che non vorrebbero essere più contati elettoralmente per un po’ di tempo. La ‘sospensione’ del sistema partitico diventa inevitabile. L’unico orizzonte è infatti quello del rendiconto elettorale nazionale. Tanto che l’approssimarsi il più possibile alla meta naturale, ossia alla scadenza della legislatura, sembra essere diventato un obiettivo politico di grande rilievo, cui dedicare, quasi fosse quello principale, le proprie energie. Nell’attesa, poco o nulla si può fare. E niente si riesce seriamente a progettare, se non stilando cataloghi – sempre più irritanti per i cittadini – di lodevoli intenzioni e già consumate idee riguardo a un imprecisabile domani del Paese. Ciò che a me sembra di giorno in giorno sempre più preoccupante è che i tempi della politica italiana stanno diventando enormemente sfasati rispetto ai tempi del Paese. O, il che è ancora peggio, i tempi della politica stanno modificando e mortificando quelli della vita sociale ed economica dell’Italia.

 

In controtendenza c'è un'Italia profonda, nell'amministrazione locale come nell'impegno sociale di varia ispirazione ideale ma anche in una tenacia creativa dell'impresa diffusa, che sembra ancora rappresentare una riserva di civismo e di elaborazione. Quell'Italia di cui e a cui parla il presidente Sergio Mattarella, ma che fatica a trovare (o darsi) forme adeguate di rappresentanza. Si determina una sempre più ampia frattura tra società e istituzioni, quale strada per ricomporla?

La ‘riserva’ c’è, sicuramente. E ognuno di noi può portare mille esempi della vitalità, che spesso (ma non sempre) ha la meglio sulle attitudini sia all’assuefazione a una politica piatta sia alla recriminazione elettorale, del popolo italiano. Attenzione, però. Quasi nessuna riserva, soprattutto quando è male gestita o trascurata, dura miracolosamente all’infinito. E va anche detto con realismo che i soggetti che con una tale riserva sono nel migliore rapporto biunivoco e da sempre ne garantiscono la continuità – ossia i corpi intermedi, produttori e al tempo stesso distributori delle risorse custodite e continuamente rinnovate nella riserva – versano in una situazione differente e assai più delicata di qualche decennio fa. Ben più che dai recenti rigurgiti del tardo-giacobinismo di chi s’immagina relazioni simpatetiche o di entusiastica adesione – senza bisogno alcuno di organismi di mediazione – fra grandi quote di cittadini e il leader politico, la rappresentatività dei corpi intermedi è stata investita ed è ancora oggi minacciata dalla caduta verticale di fiducia nella politica. Mi spiego meglio, pur dovendo incorrere in qualche semplificazione. I corpi intermedi hanno storicamente operato su due versanti. Quello in collegamento diretto con bisogni, interessi, aspettative di parti rilevanti della società. E quello – definito in modo diverso nelle differenti stagioni (si pensi, per esempio, alla definizione dapprima neutra e poi svalutativa di ‘collateralismo’) – di prossimità al sistema politico, e in qualche caso di intersezione con processi e decisioni politiche. Mentre la rappresentatività dei corpi intermedi a me sembra in generale ancora solida lungo il primo versante, sul secondo è invece compromessa da quello che a mio giudizio è tra gli effetti peggiori dello stand by e dello stato di sospensione di cui si parlava poco fa. Vale a dire, la diffusa e crescente persuasione che la politica non sia minimamente affidabile quale strumento efficace di miglioramento sociale. Detto in altri termini: il convincimento che la politica e il suo ceto rappresentativo (qualunque esso sia) sono sempre meno essenziali per un presente non troppo negativo e per un futuro auspicabilmente positivo del Paese. Riesco così a rispondere, a questo punto, all’interrogativo che conclude la domanda. La frattura fra società e istituzioni, per essere ridotta almeno in parte, ha assoluta necessità dei corpi intermedi. I quali però, per non essere travolti anch’essi dall’inaffidabilità odierna della politica (e per non essere costretti a rannicchiarsi soltanto nelle loro finalità sociali), si trovano di fronte a una sfida eccezionale e davvero grande: mostrare non solo che il loro versante di prossimità alla politica è sempre in collegamento stretto e funzionale con quello sociale, ma anche che proprio da un tale versante si è in grado di generare un’azione politica ben differente rispetto a tutto ciò che ha reso stagnante il sistema partitico-politico attuale.

 

Si torna a parlare di riforma della legge elettorale. Il proporzionale sembra non essere più un tabù. Chi lo contrasta, però, anche di fronte al caotico disgregarsi e ricomporsi delle forze in campo, ne denuncia l'essere fattore d'instabilità. Consapevoli che non ci si può fideisticamente affidare a un metodo di voto perché determini un incremento della qualità dell'offerta politica e una ricostruzione della rappresentanza, una legge proporzionale è auspicabile o no?

Anziché esprimere un giudizio personale sull’auspicabilità, e a quali condizioni, di un sistema interamente (o quasi) proporzionale, richiamerei brevemente tre dati di fatto. Sono fatti che le vicende politiche degli ultimi decenni hanno non solo evidenziato, ma anche ossificato, per un tempo la cui lunghezza e le cui modalità di conclusione sono imprevedibili, al momento. Primo: la definizione del sistema elettorale, nonostante ogni giustificazione pubblica o mascheramento pseudo-culturale, ha smesso di oscillare alla ricerca di un qualche equilibrio fra rappresentatività e governabilità. Senza alcun residuo di pudore, si è rivelata per ciò che essa è, ossia una questione tutta interna (e sottoposta) ai rapporti di forza attuali, e a quelli più o meno incautamente prevedibili o auspicabili, dei partiti. Una questione, oltretutto, che da un’invenzione all’altra di sistemi elettorali (la cui vita effimera non dà nemmeno il tempo necessario per farli entrare nei manuali per studenti universitari) è ormai scaduta all’escogitazione di marchingegni, alla contesa su quali percentuali di voto raccolto possano diventare soglie di sbarramento abbastanza condivisibili e non eccessivamente risibili. Secondo: il fondatissimo avvertimento che la governabilità (o, quanto meno, una non precaria stabilità del governo) non dipende soltanto dal sistema elettorale, bensì anche da altri assetti e regole della vigente Costituzione, è ormai divenuto un debole e costernato monito, meramente ‘accademico’. Ancora lo lancia qualche professore, che ha dedicato una parte cospicua dei suoi studi a osservare svolgimenti, cambiamenti e rischi dei sistemi politico-costituzionali democratici; ma è ormai, per il ceto politico attuale, una ‘predica’ vana e inopportuna. Terzo, e in conclusione: la spinta al proporzionale, resa ancora più forte dalla recentissima sentenza della Corte costituzionale, se davvero vuole contribuire a un miglioramento della qualità dell’offerta politica e a una rigenerazione della rappresentanza deve badare a che i partiti non precipitino ulteriormente in due baratri: l’impreparazione e improvvisazione degli eletti, e lo pseudo-leaderismo come surrogato (pessimo) della mancanza di un ‘ceto’ adeguatamente predisposto e selezionato. Una farraginosa e smottante composizione delle assemblee parlamentari sarebbe (molto probabilmente) indigesta per il Paese. E, per le sorti dell’attuale sistema politico-costituzionale, forse ancora più minacciosa della stessa tenuta precaria dei governi.

 

Allargando lo sguardo all'Europa, anche qui l'Italia sembra contare sempre meno, con buona pace tanto dei sovranismi quanto di certi acritici appiattimenti sull'Ue, egualmente insufficienti e dal corto respiro. In cosa dovrebbe cambiare l'approccio, specie oggi quando l'instabilità internazionale torna a salire?

Penso che quasi tutti siamo esterrefatti di fronte alla siderale distanza che separa gli eventi e i grandi rischi, manifestatisi in questi mesi nel campo della politica internazionale, dalle dispute giornaliere della nostra politica domestica. Quest’ultime non solo sembrano (in parte erroneamente, per la verità) bizzarre e quasi inconsistenti se messe accanto alle prime, ma documentano anche la crescente perifericità del nostro Paese rispetto alla politica ‘che conta’, rispetto alle principali dinamiche scandite da quelle che è ormai uso chiamare la geopolitica e la geoeconomia. Un rischio analogo vi è certamente per il nostro ruolo in Europa. Ed è un rischio tanto più preoccupante, quanto più il mutato approccio, cui fa riferimento la domanda, dipende necessariamente dal nostro status – ovvero dallo status attribuito dagli altri leader europei ai nostri leader e al nostro ceto politico, – dentro l’Europa. E di questo status, oltre che l’azione, i risultati conseguiti e la personale reputazione dei nostri rappresentanti di governo, è una componente essenziale quella che, al momento, si sta manifestando come la principale condizione per il ridisegno e il possibile rinvigorimento dell’Unione Europea. Ossia la partita in atto tra le più tradizionali ‘famiglie’ politiche dell’Europa e quelle di nascita più recente o magari estemporanea. Se non si è attori decisivi in questa partita, temo, ne pagheremo a lungo le conseguenze negative, specialmente rispetto alle nostre aspettative di un ruolo meno secondario in Europa, nel Mediterraneo e, più in generale, nel mondo.

 

In tutto questo i cattolici faticano a dare un contributo di giudizio e di azione originale. Si producono documenti e ci si attarda in strategie organizzative di piccolo cabotaggio. È chiaro che servirebbe un'altra strada, ma quale?

La mia risposta, nella sua genericità, è purtroppo inversamente proporzionale alla rilevanza della domanda. La quale solleva una questione, a mio parere, di capitale importanza: per la politica italiana, ma anche per la Chiesa italiana nella sua tuttora ricca rete di interconnessioni con la società. E la genericità della risposta, o la sua ovvietà, discende dal fatto che, essendomi più e più volte interrogato su quale altra strada servirebbe, in ogni occasione in cui sembrava aprirsi un pur erto sentiero, dopo pochi passi lo scoprivo ostruito o – per i più diversi motivi – impraticabile. Di azione originale, cioè innovativa organizzativamente e non retorica o conformistica negli intendimenti, ci sarebbe davvero urgenza. Si fatica, però, persino a intravedere un’azione qualificabile come propriamente ‘cattolica’. La cui nascita effettiva o auspicata non sia da ricondurre a questo o a quel gruppo particolare. I cui obiettivi non siano dettati dalle personali biografie culturali. E in cui l’idea di politica (o il confronto su una tale idea) non ripresenti scampoli di dibattiti svoltisi decenni fa, ma proponga di riallacciare concretamente il rapporto di confidenza del popolo italiano nella politica come via credibile per il miglioramento – per il bene comune, se l’espressione non è completamente usurata – dell’intero Paese. Alla fin fine, è proprio quando l’idea di politica e le più diffuse pratiche politiche diventano distanti, incomprensibili e indifferenti rispetto alla realtà di un popolo, dei suoi bisogni e dei suoi valori, dei suoi interessi e delle sue ragionevoli aspettative, che l’una di svilisce e le altre sembrano degradarsi a mezzi o mezzucci con cui chi ha un po’ di potere effettivo o presunto cerca di mantenerlo il più a lungo possibile. La smemoratezza del senso della politica non è – fra le molte cose che questa nostra età smemorata sta dimenticando o rimuovendo – un malanno passeggero o di poco conto. E per i cattolici, a mio giudizio, può costituire il gradino all’ingiù verso il loro indebolimento anche nei corpi intermedi, anche dentro la vita della società che, nonostante tutto, sta lavorando e pensando al proprio domani.

 

Marco Margrita

 

 

 




Via Luigi Luzzatti 13/a - 00185 ROMA - Tel +39-06-7005110 - Fax +39-06-77260847 - [email protected]
2012 developed by digitalset digitalSet