Non è facile tracciare un quadro completo del complesso mondo felliniano: ci proviamo non solo per rendere omaggio al centenario della sua data di nascita, ma anche per individuare attraverso il cinema i motivi ricorrenti della sua arte. Per comodità distinguerei quattro fasi.
La prima è caratterizzata dalla sua visione personale della sua vita di provincia e dalla voglia di evasione; dalla sua ironia sugli umili ai primi protagonisti del varietà, attraverso lo scorrere degli eterni fanciulloni (i vitelloni), il mix di sogno-fumetto (lo sceicco bianco) e la visione dell’amore che sarà una costante per tutta la vita. (fino al ‘53-54).
La seconda fase la ritengo paragonabile al grande coraggio di superare con coraggio il desiderio di evasione mostrando interesse nella ricerca de prossimo superando il freno dell’incomunicabilità (la strada, le notti di Cabiria il bidone) dove la predominante è la “esaltazione dell’eroe felliniano”: Gelsomina, Cabiria e Augusto, un mondo che presto getterà la maschera della tragicità attraverso beffe, sofferenze e solitudini. (fino al 1960).
La terza fase, fino al ’63, c’è lo scatto di una parabola ascendente contro un mondo falso e decadente (la dolce vita, Boccaccio ’70 e Otto e mezzo) dove la sua denuncia trova ragione di autenticità quando è sostenuta dall’amore fraterno.
La quarta fase è discendente molto più pessimista delle precedenti, sembra tutto finito con la gioia del finale di Otto e mezzo: (“è una festa, la vita!”), trova spazio la fatalità della morte (Fellini-Satyricon). Un’altra decina lo seguiranno (dal 1970 al 1990). Il Fellini- Satyricon fa da cerniera tra la fase precedente, le venature liriche, autobiografiche e satiriche che, confuse insieme, si mescolano con sapore moderno oppure antico, e comunque rievocativo - da Roma al Casanova, dai Clowns a E la nave va, dalla Citta delle donne a Ginger e Fred, toccando pure l’apologo socio politico in Prova d’orchestra, ma in questa seconda parte con l’autobiografismo tipico riminese non ancora concluso (vedi soprattutto Amarcord). L'ultimo film, infatti, che Fellini ci ha lasciato, La voce della luna, che cos’è se non un tentativo di ascolto di questo mistero? (“Se tutti facessimo un po' di silenzio...").
Chi conosce Federico Fellini e la sua filmografia sa che il maestro riminese non fu mai un “regista politico”. Si dichiarò sempre disinteressato e distaccato da quel mondo. Non si può dire che tuttavia Fellini non abbia trattato fortemente diverse tematiche sociali nelle sue opere: dalla educazione cattolica, alla decadenza della società, fino all’eros e al femminismo, per citare solo alcuni dei numerosi temi delle sue pellicole. A differenza di Amarcord esse in cui si intrecciano quadretti socio-politici dell’epoca fascista e della contemporaneità, il film Prova d’Orchestra: apparentemente minore, di soli 70 minuti, girato per la tv, senza attori professionisti e con una trama che potrebbe sembrare troppo semplice per le classiche opere felliniane. Invece, in questa non troppo ricordata pellicola, ci troviamo di fronte ad un Fellini che affronta di petto le tematiche politiche, le tendenze in voga in quell’epoca, i pericoli, i rischi della società italiana, gli uomini e le masse. Uno spaccato fondamentale dell’Italia di quegli anni di incertezza, di paure e di voglia di futuro. È noto pure che Fellini non abbia mai avuto particolari inclinazioni musicali, ma nonostante ciò, in Prova d’Orchestra l’arte musicale assurge a una valenza umana primaria, una importanza preponderante che si fa “mito”, “esempio” per l’arte nella sua complessità – il tutto ritmato dalle splendide musiche di Nino Rota. Una vicenda, apparentemente semplice e triviale, ha invece una forte carica universale, piena di colpi di scena, personaggi lapidari e fortemente caratterizzati come solo Fellini ne sa creare.
L’inizio molto nostalgico: un vecchio copista, prossimo al pensionamento, racconta commosso la storia del luogo dove avverranno le prove musicali. Un auditorium disadorno, simile ad una cripta sotterranea, dove si trovano le tombe di tre Papi e sette vescovi, mentre il copista continua a narrare la storia del luogo compaiono totalmente dal nulla spartiti, strumenti, sedie. L’auditorium si riempie di strumenti, quasi ombre venute dai tempi passati che si materializzano, Entrano in scena i suonatori, prontamente intervistati dalla TV, dove hanno spazio di esprimersi. Si tratta di figure semplici, a tratti ingenue e grottesche, che tutto ciò che hanno da dire è esprimere una totale dedizione al proprio organo: se ne cantano ingenuamente le virtù, la superiorità, si è fieri dell’importanza che il proprio strumento ha all’interno dell’orchestra, se ne ricorda il passato. Dal flautista al trombonista…tutti i suonatori presenti inconsapevolmente ridicoli o vanitosi, ma che conservano una candida genuinità ed una forte passione per ciò che compiono per la sola passione.
Durante le prove, avvengono molte interruzioni: alcuni strumenti stridono, altri non sono coordinati, altri si fanno troppo sentire, chi stona, ecc. Il tutto acuisce la poca pazienza del direttore, facile all’ira e pronto a rimpiangere i tempi passati, dotati di una “finezza” oggi assente i musicisti sono troppo distratti, pronti allo scherzo, ascoltano radioline e si disperdono con occhi abulici.
Finalmente però, dopo diverse prove, il direttore riesce a farsi seguire dai musicisti, ora più concentrati e operanti all’unisono, che suonano finalmente la melodia, senza sbavature. L’esecuzione è perfetta, la massa dei musicisti è finalmente in perfetta sintonia con il suo leader. Ed è qui che, improvvisamente, entrano in gioco fattori in apparenza estranei: una non ben motivata protesta, pretese di assicurazioni e tutele che vanno totalmente a discapito dell’opera musicale, fortemente danneggiata da queste interruzioni.
Il direttore cede alle assurde pretese dei musicisti, interrompe le prove per venti minuti – vista anche l’assenza di un musicista, sempre in accordo coi sindacati. Il suo seguito e consenso vacilla, la sua autorità inizia a venire messa in discussione e ridicolizzata. Nell’edificio c’è un black-out – un black-out fatto di proposito dai musicisti, che simboleggia l’oscuramento dell’umanità, la cessazione della luce, la riduzione dell’auditorium ad un antro oscuro e barbarico, dove i musicisti si sono improvvisamente ribellati.
Il direttore, intenzionato comunque a proseguire le prove, entra in un auditorium saccheggiato, violento, sporco, imbrattato. Un ricordo del ’68, (molto “sessantottini” sono anche i volti stravolti, sudati e stralunati, dei musicisti ribelli), avvenuto in quel piccolo e antico auditorium, dove si manifestano sia il disprezzo per tutti i riti e le tradizioni musicali, sia l’imbarbarimento e la regressione umana ad un livello istintuale.
Eppure, una parte dei musicisti, ancora più riottosa, si ribella all’acclamazione del metronomo, chiedendo l’assenza di qualsiasi strumento di controllo e il fatto che “sia la musica stessa a stabilire il suo ritmo”. Nasce una rissa tra queste due fazioni, sintomatica degli scontri interni e della violenza intestina (e pretestuosa) di questo tipo di fenomeni. La guerra viene interrotta improvvisamente da un musicista anziano che estrae una pistola e si mette a sparare piuttosto casualmente, finché viene bloccato da un altro musicista.
Nel frattempo, l’umanità ha conosciuto un decadimento totale: si suonano strumenti a caso in modo rumoroso (soprattutto emergono frenetici i tamburi di guerra), si fuma, si beve, scoppiano risse per motivi futili, si distruggono gli strumenti, ci si denuda e dal soffitto piove una pioggia nera e vischiosa! Nel frattempo, si odono discorsi a sfondo politico, a volte interrotti, a volte banalizzati a poche frasi, ma che ben rendono il clima di follia collettiva che pervade la sala. Improvvisamente, nell’auditorium sommerso dall’anarchia fa irruzione una palla demolitrice che distrugge una intera parete. La parete distrutta fa piovere nella sala, buia e simile ad una caverna preistorica, la luce della Luna, che, in una densissima nube di polvere, illumina i volti esterrefatti, terrorizzati e stupiti dei musicisti.
La comparsa della palla, in una scena chiuse da quattro mura, ha la funzione di deus ex machina, provocato dall’esterno, che, con la sua poderosa forza riesce a distruggere, a mutare lo stato di cose esistente. In essa e nella sua catartica forza non troviamo nulla di naturale, né di umano (si vede solo la palla, non si sa se essa sia o no collegata ad una macchina): essa semplicemente esiste, e il suo salvifico intervento è capace di mutare lo stesso animo umano e generare una sorta di palingenesi. A quel punto, è il direttore d’orchestra a rientrare in scena, L’ordine è stato restaurato, i musicisti hanno cessato la rivolta.
Tutti silenziosi, tutti fedeli e ritornati al principio, la massa segue ora il direttore e ne riconosce il comando e suona ora, tutta all’unisono, il pezzo di chiusura, in modo ottimale e ben calibrato. Eppure, il film non si conclude con questa superba melodia: nonostante la bravura dei musicisti, il direttore inizia duramente a rimproverare i suoi allievi, sempre più duramente, in contemporanea alla dissolvenza, durante la quale il direttore inveisce in tedesco con un fin troppo riconoscibile piglio nazista, che termina con un «Signori, da capo!». Un fin troppo riconoscibile ammonimento sui rischi dell’uomo solo al comando, sulla leadership e sui suoi rischi di degenerazione.
Con questa chiusura maestosa, Fellini ci immerge, col suo linguaggio onirico e barocco, in un piccolo e chiuso affresco della fine degli anni settanta, una grottesca e a tratti misteriosa allegoria della politica, che trova numerosi echi nella storia e nella ciclicità dei tempi.
Gilberto Minghetti