PRIMO PIANO
08/01/2020
I Comuni dimenticati
La perdita di abitanti nei piccoli comuni ha sancito la morte definitiva delle nostre tradizioni, usanze e costumi.

Pensate fra i 6000 paesi abitati da meno di 5000 persone (il 70% dei comuni d’Italia) circa la metà sono completamente o quasi totalmente deserti. Ed a questa seconda categoria, quella dei paesi abbandonati, appartengano circa 1000 insediamenti.

Sono stati realizzati alcuni progetti di catalogazione di borghi spopolati, con estensione territoriale più o meno ampia, promossi da enti accademici (es. Geografie dell’abbandono del DPA-Politecnico di Milano e della Facoltà di Architettura di Ascoli Piceno), tuttavia però non risulta che esista ad oggi un conteggio ufficiale degli agglomerati urbani disabitati, dalle cittadine fino alle frazioni.

I borghi abbandonati vengono comunemente denominati anche “paesi fantasma”. La cosa più avvilente è che quello dei borghi dove la popolazione residente risulta pari a zero, è un argomento di scarsa importanza per la nostra Nazione e per le sue Istituzioni. Tutti i Governi, infatti, hanno sempre rivolto scarsa attenzione nei confronti dei piccoli insediamenti urbani e, perciò, anche dei paesi in via di abbandono, se non già spopolati.

Nel nostro Paese il cambiamento delle abitudini sociali, avvenuto dal secondo dopoguerra in poi, complice il famosissimo boom economico e le migliori condizioni di esistenza che una vita in città e il lavoro in fabbrica garantivano, ha portato ad una trasformazione radicale del modo di vivere della collettività. Il profondo mutamento, avvenuto in un lasso di tempo molto breve ha portato al rapido abbandono delle località dall’economia poco redditizia o troppo inospitali, zone montane, in primis, che rappresentano il 40% del territorio nazionale e dove dal XVI secolo fino ai primi decenni del 1900 la crescita demografica delle comunità stanziali era stata continua. In altre parole, se la popolazione italiana negli ultimi 60 anni è cresciuta di circa 12 milioni di persone, la montagna ne ha perse circa 900mila (Cerea, 2016).

Se ci pensiamo è normale, si perché i luoghi che prima garantivano la sopravvivenza, secondo le regole della vecchia economia di sussistenza, improvvisamente non sono risultati più idonei a sostenere le esigenze di guadagno della società del consumo. I nuovi principi della civiltà moderna hanno, quindi, trasformato in posti invivibili territori dove il rapporto reddito/fatica del lavoro non fosse nettamente positivo.

Dalla metà del secolo scorso, il settore secondario (quello delle attività industriali) e il terziario (quello dei relativi servizi economico-finanziari) hanno sancito il crepuscolo dei molti mestieri legati al settore primario (agricoltura, allevamento, pastorizia, selvicoltura, pesca, attività mineraria), facendo sì che intere generazioni native delle aree rurali e montane si trasferissero definitivamente in pianura, nelle sempre più affollate realtà urbane.

Ovviamente, la perdita dell’antropizzazione della montagna, così come di buona parte della campagna, porta con sé svariate conseguenze, alcune più immediate e altre a lungo termine. Fra le prime, la disgregazione sociale dei piccoli centri abitati ha cancellato tradizioni, usanze e costumi. Fra i molti temi, ne citiamo solo alcuni: le manifestazioni della pietà popolare, le specificità agro-alimentari, l’abbigliamento tradizionale, le feste, le celebrazioni, i canti popolari, fino alla medicina tradizionale. A questo, oserei dire fuggi fuggi, si è aggiunta la partenza dei più giovani causando così che l’età media dei paesi in via di abbandono si alzasse vertiginosamente: ormai solo gli anziani continuano ad abitare alcune zone d’Italia, che sono dunque destinate ad alimentare la già ricca schiera dei paesi abbandonati.

Però cari amici, l’abbandono delle colline, come sta accadendo da anni nell’entroterra italiano, sta causando diversi effetti di medio-lungo termine come: l’aumentato rischio idro-geologico, il quale è molto avanzato nelle zone interessate dall’abbandono; infatti in tali zone si evidenzia la mancata cura dei terrazzamenti e delle opere di canalizzazione delle acque, ne consegue cedimenti dei terreni, frane, danni alle vie di comunicazione fino a portare alla loro inagibilità, nonché allagamenti e inondazioni nelle zone abitate poste a valle a causa dei corsi di acqua non più regimentati. Senza parlare poi del rimboschimento, quando guidato da rigorose politiche mirate, determina indubbi benefici quali il rallentamento dell’erosione del terreno, la protezione da inondazioni e da valanghe, la ricostituzione della biodiversità, la riduzione dell’effetto serra. Se invece esso avviene in modo naturale, prendendo, cioè, selvaggiamente il posto di coltivazioni e di pascoli abbandonati, porta con sé notevoli problematiche ambientali, come il pericolo di incendi o di malattie parassitarie che rischiano di divenire incontrollabili a causa della fitta densità forestale. E poi non da ultimo la trasformazione in rovine del patrimonio architettonico dei villaggi disabitati ad opera degli agenti atmosferici e la perdita, dunque, delle peculiarità strutturali, funzionali ed estetiche degli insediamenti un tempo popolati; Dio sa quanti borghi di questo genere ci sono nelle mie zone.

Inoltre l’abbandono di un territorio ne riduce inevitabilmente il potenziale turistico, che, secondo la logica del circolo virtuoso, al contrario, dovrebbe essere incentivato, con intelligenza, in considerazione del crescente interesse per il cosiddetto ecoturismo. In tale direzione va la “Carta per il turismo sostenibile” approvata già nel 1995 in occasione della prima Conferenza Mondiale sul Turismo Sostenibile con finalità di indicare le regole per un turismo ‘intelligente’.

Vedete i paesi possono morire lentamente perché non hanno mai raggiunto vie di comunicazione più idonee a rendere agevoli i collegamenti col resto del Paese. Oppure perchè il terreno su cui è stato fondato diviene franoso per cause naturali o artificiali o perché troppo umido e ne inizia a corrodere i basamenti. In qualche caso è poi il mare ad affermare la propria potestà territoriale sugli insediamenti umani.

Però può anche accadere, come nelle zone interne del Piceno, che un paese muoia anche in modo subitaneo, se un terremoto o un improvviso smottamento del terreno ne danneggiano le abitazioni tanto da renderle completamente inagibili; oppure se una valanga di massi e di terra, staccatasi dalle montagne sovrastanti, lo ricopre; se lo sommergono le acque impazzite di un fiume che straripa.

A questo punto una domanda sorge spontanea: cosa hanno fatto i Governi negli anni per evitare lo spopolamento delle zone interne a beneficio della costa?? Mi sento di dire proprio nulla!!

 Luca Cappelli

 




Via Luigi Luzzatti 13/a - 00185 ROMA - Tel +39-06-7005110 - Fax +39-06-77260847 - [email protected]
2012 developed by digitalset digitalSet