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08/10/2019
Se sai giocare, non bisticci sulle regole
La sfida è parlare al Paese costituendo soggetti politici fondati sull'identità

In sistema politico italiano in progressiva scomposizione e ricomposizione, con la triste prevalenza del calcolo immediato sull'elaborazione di prospettiva, è tornato al centro del dibattito la questione della modifica del metodo elettorale. Ci troviamo di fronte, non è la prima volta dalla fine della Prima Repubblica caratterizzata dal rigido e costituzionalmente conseguente impianto proporzionale, al nostrano “gerrymandering”. Come negli Stati Uniti è perniciosa diffusa pratica politica il disegnare strumentalmente i confini dei collegi elettorali in modo da influenzare il risultato elettorale, alle nostre latitudini si rimodulano i sistemi di voto per far pesare il più possibile i propri consensi. Potremmo elencare, tra mai veramente nata Seconda Repubblica e vagheggiata Terza, una lunga serie di esempi. Quasi mai coronati da successo in quanto ad esiti per gli artefici, partendo dal Mattarellum che la Democrazia Cristiana pensava come forma di sopravvivenza: la salamandra dei nostrani Elbridge Gerry ha il difetto di scivolare via dalle mani dei suoi presunti allevatori. Le posizioni, sguscianti non meno dell'anfibio urudelo, hanno visto e vedono cambi di fronte: si è maggioritari o proporzionalisti a alla bisogna e senza una vera riflessione sulle premesse istituzionali che un sistema o l'altro richiedono (o implicano).

Per carità, anche Sturzo sul proporzionale passò dal radicale favore dell'Appello ai Liberi e Forti all'accanita opposizione nel secondo dopoguerra, ma difficile pensare che la conversione anglosassone leghista (antimaggioritaria nel '91, nel '99 e fino a non troppo tempo fa) possa essere paragonata dal ripensamento del sacerdote di Caltagirone. Anche l'abbandono delle velleitarie “vocazioni maggioritarie” nei lidi democratici, ad occhio, non è frutto di travagli interiori sulla prevalenza del valore della rappresentanza rispetto a quello della governabilità.

Sia come sia, con una serietà diversa da quello degli attori sulla scena politica, questo sito ha aperto una seria riflessione sul tema e, pur meno autorevole di quanti altri già vi sono intervenuti su, anche chi scrive vuole condividere qualche spunto.

Partiamo da un'evidenza: è giusto che gli elettori siano messi nella condizione di “conoscere per deliberare”. E il primo aspetto su cui essere rettamente informati è cosa se ne farà del  voto: il consenso viene indirizzato, infatti, in forza del riconoscer(si) per identità e porta con sé la richiesta di coerenza ad essa (anche e soprattutto nelle alleanze, che hanno natura e conseguenze programmatiche). Non si può, però, (far) credere che collocazioni e alleanze siano esse stesse (e sole) determinanti di un'identità. Questa è una riduzione della politica, poiché si vota per qualcosa che viene prima e va oltre.

Riconosciuto questo valore, possiamo ricavarne, nel nostro riconoscere l'europopolarismo come la casa più adeguata all'espressione della visione politica che deriviamo dalla nostra identità, che c'è più di un problema in termini di contenuti, se è necessario (e sufficiente) il sistema maggioritario per costruire un'alternativa al “partito radicale di massa”. Manca qualcosa di costitutivo e mobilitante nel profondo. Si è di fronte a una sola pretesa identità, forse anche a un sentimento ostile verso qualche potenziale alleato che potrebbe averne una troppo forte e non meramente reattiva. Dalle parte dell'evocato centrodestra, insomma, si sarebbe non molto diversi da quanti abbisognano del sistema proporzionale per assommare minoranze contro una significativa maggioranza relativa.

É probabilmente il tempo di abbandonare la cura del proprio giardino, o delle salamandre, per costruire una proposta originale. C'è un popolo che la domanda, essa deve esistere quasi a prescindere dalle regole del gioco. Se c'è un'identità (anche pluralmente declinata) questa deve addensare soggetti e non attrezzare espedienti dal corto respiro.

Marco Margrita

 

 




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