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26/07/2019
L’inconsistenza pentastellata
serve una proposta d'alternativa popolare che abbia la propria linfa nel dinamismo dei corpi intermedi

Vista da Torino, ancor più che dalla Roma Capitale che deve fare i conti con il malgoverno di Virginia Raggi, si di-mostra in tutta la propria evidenza l'inconsistenza della declinazione pentastellata della gestione della cosa pubblica. A Torino, questa, si fa Chiara. Nel senso di Appendino, la prima cittadina costruita in laboratorio (“finta incendiaria”, secondo l'immagine che ebbi modo di usare in un pezzo scritto per “Tempi” a commento dei suoi primi cento giorni a guida della città), con lo scopo di consentire il matrimonio tra certi “poteri forti” sempre in ricerca di una ricollocazione e il nuovismo retorico dei grillini. Un'operazione facilitata, anche, dalla grossolana fretta di tanto centrodestra nel determinare una sconfitta dell'avversario essendo storicamente incapace di edificare un'alternativa. Chiara Appendino, grazie a una stampa che si fa sempre buona di fronte ai potenti, siano essi nuovi o vecchi, è a lungo stata “quella brava”. In evidente contrapposizione con una Raggi meno “fotogenica”.

In nessun altro luogo come sotto la Mole è apparso chiaro che l'illusione di un certo populismo sia risolversi in una perfetta (quasi impolitica) tecnocrazia. Così la giunta dell'esponente della buona borghesia sabauda prestata al Vaffa si è fatto plastico contraltare alla scalcagnata truppa del gruppo consiliare della maggioranza, fatto di precari variamente indignati ed estremisti delle più improbabili cause (in primis No Tav; le bandiere con il trenocrociato, lo si ricorda bene in città, garrivano nella piazza del Municipio la notte della sconfitta di Piero Fassino al ballottaggio). Il destino d'ogni illusione, però, è svanire all'alba. Non è andata diversamente, per quanto a lungo l'autocensura mediatica e l'inebetita nostalgia dei bei tempi dell'opposizione di centrosinistra l'abbiamo occultato, nell'ex capitale (d'Italia, dell'auto e di un sacco di altre cose più o meno tutte finite a Milano) che non riesce a trovare identità e vocazione.

Prima la sconfitta sulla vicenda olimpica (che doveva essere il suggello, all'insegna della narrazione dei “Giochi sobri ed ecocompatibili”, dell'Entente cordiale tra i salotti e i presunti partigiani delle periferie) e, poi, cosa di queste ore, la pietra tombale sulla possibilità di fermare il Tav: due momenti topici, che si sono incaricati di mostrare senza trucco il volto della sedicente rivoluzione di velluto appendiniana: roba di cartapesta (con dietro qualche solito volto incartapecorito, già in fuga da non mirabili e non progressive sorti).

Guardare Torino significa trovarsi di fronte (al)la sfida, anche e soprattutto per chi sa che non è un ritorno a qualche ulivismo la strada per uscire dall'inazione e dall'inesorabile china verso il declino, dell'elaborazione di una proposta d'alternativa popolare, di “sviluppo e buonsenso”, che abbia la propria linfa nel dinamismo dei corpi intermedi e nel civismo diffuso (dei produttori, anche; per recuperare una felice formula del presidente Carlo Costalli, utilizzata proprio per qualificare una mobilitazione torinese: quella per il Sì al Tav).

La competenza può non essere grigio moderatismo e l'attenzione vera agli esclusi non richiede pose descamisade. Si può fare; partendo da Torino, magari. E questa volta c'è davvero da confidare che l'idea sia scippata da molti.

Marco Margrita


 




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