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01/07/2019
Dal 2019 a don Sturzo: quale nuova politica?
La politica dei cattolici ha una visione di Stato che vuole realizzare alla luce delle nuove sfide che il Popolo sovrano ha lanciato nelle diverse tornate elettorali?

Il centesimo anniversario del manifesto sturziano “Ai Liberi e Forti”, inevitabilmente porta all’organizzazione di incontri e convegni culturali per la celebrazione dell’evento.

Ma quanto è attuale il “Manifesto” oggi? Quanto e cosa è cambiato (come è ovvio che sia) nel mondo attuale e, in particolare, in Italia? Quanto è pronta la politica, che si ispira alla Dottrina Sociale della Chiesa cattolica, ad applicare la visione sturziana alle trasformazioni del lavoro, dell’industria e dei bisogni sempre nuovi, a una società che si trasforma con una velocità sempre maggiore rispetto agli anni che intercorrono tra il 1919 e il 2019? Ha la politica dei cattolici una visione di Stato che vuole realizzare alla luce delle nuove sfide che il Popolo sovrano ha lanciato nelle diverse tornate elettorali?

Per rispondere a tali domande facciamo cento passi indietro, considerando la novità che il manifesto di don Sturzo conteneva nelle sue proposizioni.

Qual era la situazione politica e sociale prima di Sturzo e il dibattito allora esistente? Perché il PPI diventò immediatamente partito di massa? Da quali settori era composta la massa che subito aderì alle idee di coloro che scrissero il Manifesto “Ai Liberi e f”orti”?

Facciamo ulteriori cento passi indietro e troviamo alcuni fattori: 1) a fine ottocento in Italia la compagine politica era distinta in Destra “storica” e sinistra “storica”; entrambi gli schieramenti erano dei contenitori generici nei quali convivevano identiche compagini sociali (aristocratici, borghesi, monarchici, liberali); ciò che li divideva era la visione più o meno progressista o conservatrice della società, ma nulla di più, tanto che Giolitti dimostrò quanto fosse facile far passare i parlamentari da sinistra a destra col famoso trasformismo. 2) La Carta costituzionale del Regno era lo Statuto albertino del 1848 e prevedeva che gli aventi diritto al voto fossero coloro che avessero un alto censo e che sapessero leggere e scrivere (diciamo che il diritto di voto era consentito a circa il 10% della popolazione). 3) L’unico partito che si distingueva dalle formazioni tradizionali era il Partito Socialista Italiano, fornito da una solida ideologia (quella marxista) e di una classe dirigente che aveva obiettivi chiari: la rivoluzione, abbattimento dello Stato borghese, dittatura del proletariato, attraverso il passaggio dallo Stato borghese, al socialismo, al comunismo; perchè questo passaggio fosse possibile, la società andava educata. 4) la rivoluzione russa dimostrò che quanto detto prima fosse possibile.

Il PSI divenne partito di massa, ma dal 1919 lo diventò anche il PPI; come fu possibile che due partiti di così forti adesioni non seppero evitare gli eventi successivi?

Prendiamo in considerazione il PSI: Qual era la massa di riferimento? Era il proletariato urbano, cioè quella massa dei lavoratori dell’industria che, sfruttati dallo Stato borghese, erano gli unici che potevano comprendere la rivoluzione socialista e il relativo avvento della dittatura del proletariato; privi del giusto salario, non godevano del guadagno del proprio prodotto perché il derivante capitale apparteneva al padrone dell’industria; costui, inoltre era proprietario della strutture, dei mezzi di produzione, del capitale investito e, quindi, della materia grezza che il lavoratore trasformava in prodotto finito. Il cerchio si chiudeva con l’arricchimento del capitalista borghese che era generato dallo sfruttamento del proletario il quale viveva in abitazioni povere e anguste (spesso condivise da più nuclei familiari).

Il mondo rurale? Quello no, non poteva capire la rivoluzione, né la dittatura del proletariato, per alcuni semplici motivi: il contadino era 1) proprietario dei mezzi di produzione; 2) proprietario della terra che lavorava, 3) proprietario del prodotto iniziale e di quello finito, lo immetteva nel mercato e ne godeva del guadagno. 4) Per tali motivi, dunque, non conosceva lo stato di sfruttamento borghese, pertanto non poteva essere un rivoluzionario perché anche il contadino era un proprietario dei mezzi di produzione, del prodotto e del guadagno, così come lo erano i borghesi.

Obiettivo finale, dunque, era quello di giungere al potere, ma senza collaborare o allearsi con altre forze politiche (ci ricorda qualcuno? Corsi e ricorsi storici).

Tornando, però, allo Statuto albertino e al diritto di voto, ricordiamo che il censo richiesto era molto alto, pertanto neanche la media e piccola borghesia era contemplata tra gli aventi diritto e nella rappresentanza nel Parlamento regio.

Certo, Giolitti introdusse il suffragio universale, ma per i soli maschi che avessero compiuto i ventuno anni e avessero saputo leggere e scrivere.

Ecco, dunque la novità del pensiero sturziano e del “Manifesto”, riportiamone uno stralcio: “(…)vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i Comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali”.

Ecco la prima grande rivoluzione: La visione di un nuovo Stato attraverso l’incoraggiamento dell’iniziativa privata, non solo di quella borghese, ma anche di quella agraria; riforma del Parlamento su base proporzionale e voto alle donne, il che vuol dire suffragio universale e abolizione del censo per cui tutti, all’interno di un Senato elettivo, avessero la propria rappresentanza politica di riferimento.

Seconda rivoluzione: “ (…) invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi (quindi anche di quelle classi che contemplavano gli analfabeti che a quei tempi risultavano essere ben il 70% della popolazione), l'autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali”.

Ecco, è qui che si realizza quell’interclassismo, pratico e non teorico, di cui è portatore il PPI: non solo alla grande borghesia, ma anche alla piccola e alla media, unitamente al mondo rurale e “agli ultimi”, si deve il riconoscimento di essere “classe”; ancora qui si manifesta la visione di un nuovo Stato, cioè la destrutturazione dell’accentramento monarchico (anche se parlamentare) a favore di una grande autonomia e decentramento amministrativo.

La terza rivoluzione è conseguenziale: è a quella grande parte di popolazione, fino ad allora esclusa dalla vita politica, che va dato il riconoscimento giuridico, col diritto di voto, e quindi il pieno riconoscimento di queste classi nella costruzione del precedente nuovo Stato enunciato “… a dare un assetto stabile all(a) Nazion(e), ad attuare gli ideali di giustizia sociale e migliorare le condizioni generali, del lavoro, a sviluppare le energie spirituali e materiali di tutti”.

Perché parlo di “rivoluzione” nelle linee essenziali del “Manifesto”? Ricordo, ancora, che è appena terminata la prima guerra mondiale; che i socialisti rivoluzionari interventisti (costola fuoriuscita dal PSI neutralista) erano convinti che la guerra mondiale era stata voluta da Stati borghesi, quindi sconfitti una parte di essi, la rivoluzione poteva continuare per abbattere la borghesia vincitrice della guerra, tanto che a Milano era già stato costituito un primo “Soviet”.

Bene, fin qui l’analisi del pensiero sturziano al 1919 e dei fattori storico-sociali; torniamo all’oggi, chiedendoci quale sia lo stato delle cose: esiste ancora il proletariato urbano come classe sfruttata e mal pagata? Il mondo agrario è fermo nella sua staticità? La borghesia, pensa ancora al mantenimento del potere politico acquisito?

Il proletariato non esiste più; il lavoratore ha riconosciuti i suoi giusti diritti (salario decoroso, un’abitazione degna di questo nome, le ferie e tutto ciò che gli compete) e ad esso si è accostato la massa degli stipendiati dallo Stato per cui si sono elevati a piccola borghesia di città. La stessa borghesia, oggi, preferisce il potere economico al posto di quello politico dei partiti

Il mondo agrario è diventato impresa, si è aperto spazi di mercato nazionale e internazionale i cui interessi vanno oltre il piccolo appezzamento di terreno e del trattore, o del piccolo capo di bestiame (solo così si comprendono le contestazioni dei pastori sardi).

La piccola e media borghesia, ormai sdoganata, è diventata imprenditrice di sé stessa, contribuendo con la produzione all’arricchimento del sistema Paese, ma solo se essa trova utile fare impresa senza che le venga succhiato il sangue (come si dice in gergo, senza essere “vampirizzata”) dalle tasse.

Ecco, oltre a ricordare i cento anni del Manifesto, siamo pronti a dare risposte nuove a Rerum novarum? Esiste un’idea nuova di Stato e società che, partendo dalla ricchezza del passato, si presenti come soggetto del tutto nuovo capace di catalizzare e attrarre tutte le idealità, i bisogni e le rivendicazioni che provengono da una società che si rinnova continuamente, di un’industria che a passi veloci si avvia verso la completa robotizzazione? Esiste una classe politica capace di governare le innovazioni? A me pare di no. Vedo una classe politica stantia, che in forme diverse genera sempre sé stessa, incapace di rinnovarsi idealmente replicando slogans e vecchie ricette abusate; non pronta ad investire nelle novità che il nuovo mondo produttivo richiede a gran voce.

Mi sovviene una frase di Aldo Moro: “ Noi siamo conservatori, si; ma non di un conservatorismo stanco, stantio e arroccato alle posizioni conquistate, Ma che, partendo dalla nostra tradizione, sia capace di trasformare la società odierna”.

Alberto Fico

 

 




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