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14/06/2019
Una capitale nell’abbandono
alla sofferenza della città non può non corrispondere l’impegno e la proposta dei cattolici

Roma continua ad affondare nella cronaca. Solo da poco sono state spente le luci sulla ribalta dei processi che avevano accostato il nome della Città a quello della mafia, anche se non sono state ancora emesse le sentenze definitive. Le criticità emergono ogni giorno tra le inadeguatezze della giunta e le operazioni urbanistiche che passano al vaglio della Procura.

Eppure, nonostante tutto, la vera questione della Città non riguarda solo la cronaca, giudiziaria o amministrativa che sia, ma qualcosa di più indicativo e di più grave. Roma, come ha detto con efficacia il presidente del MCL Carlo Costalli, in un’intervista ad un quotidiano romano, è “immersa nell’abbandono mentre l’amministrazione naviga a vista”.
E’ un “abbandono” che viene dall’alto, ma al quale corrisponde altrettanta defezione e incapacità nelle istituzioni amministrative locali. Per comprenderlo cominciamo, con questo articolo, ad esaminarne alcuni aspetti del rapporto tra Roma e il governo.

Si è di recente aperta una discussione per alleggerire i problemi di bilancio della Capitale. Tuttavia anche il cosiddetto “Salva Roma”, contenuto nel “Decreto crescita” che potrebbe portare ad una riduzione del costo del debito, rappresenta, né più né meno, che un intervento a valle di una attività amministrativa che accumula debito, senza peraltro realizzare ciò che più necessita alla città, cioè adeguati programmi di manutenzione e investimenti significativi.

Il rapporto tra il governo e la Capitale si limita a realizzare, di volta in volta, - accadde anche al tempo dei governi Berlusconi - provvedimenti tampone per evitare la bancarotta della giunta romana.

Lo Stato sembra ormai rassegnato a considerare Roma come uno dei non pochi comuni che, ormai con una certa sistematicità, ricorrono all’intervento dello Stato a causa delle difficoltà di bilancio e non come la Città che dovendo svolgere funzioni diverse da tutti gli altri comuni, richiede interventi che non possono non coinvolgere l’attività e i programmi del governo.

Non è sempre stato così. Nel 1990 venne approvata la legge 396 denominata “Interventi per Roma, capitale della Repubblica”. Venivano indicati gli obbiettivi considerati di “preminente interesse nazionale” e “funzionali all’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di capitale della Repubblica”. Tra questi: la conservazione e la valorizzazione del patrimonio monumentale archeologico e artistico, dall’area centrale dei fori ai parchi urbani e suburbani; la tutela dell’ambiente con riferimento ai fiumi Aniene e Tevere e la riqualificazione delle periferie; l’adeguamento e la dotazione dei servizi e delle infrastrutture per la mobilità urbana e metropolitana, la navigabilità del Tevere, la riorganizzazione delle attività aeroportuali, il potenziamento del trasporto pubblico in sede propria, sotterranea e in superficie;  la qualificazione delle università e dei centri di ricerca; la costituzione del polo europeo dell’industria, dello spettacolo e delle comunicazioni e la realizzazione del sistema fieristico ed espositivo; l’adeguata sistemazione degli istituti internazionali operanti in Italia. Un articolo a parte era dedicato alla realizzazione del Sistema Direzionale Orientale per il quale la giunta Giubilo aveva incaricato, l’anno precedente tre personalità di grandissimo rilievo Kenzo Tenge, Gabriele Scimemi e Sabino Cassese, oltre che avere predisposto una struttura ad hoc. Con esso, come recitava il progetto, si sarebbe ottenuta “la riqualificazione del settore orientale della città, in termini non solo di nuove funzioni direzionali e produttive, ma anche la realizzazione di centri integrati di servizio e di verde che trasformino le periferie in una parte integrante della città”. Gli strumenti a disposizione per la realizzazione del programma preparato da una commissione che coinvolgeva le tre istituzioni (Comune, Provincia e Regione), sarebbero stati: la istituzione di un Ufficio del programma per Roma capitale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e l’adozione di procedure speciali attraverso accordi di programma e conferenze di servizio, con la adozione del silenzio assenso. Erano previsti finanziamenti adeguati e ricorrenti.

Insomma lo Stato interveniva su Roma, coinvolgendo le sue istituzioni locali, non per tappare i buchi del bilancio, ma per la realizzazione di programmi finalizzati al ruolo della Città. Tuttavia alle buone premesse non corrisposero fatti adeguati. L’impegno dei governi successivi, dopo uno slancio iniziale, soprattutto dal 1996, si appiattì su un’attività di burocratica gestione. Contribuì anche il clima difficile che si venne a creare, in tutto il Paese, per i fatti di corruzione.  Emblematica, poi, fu la rinuncia nel 1995, da parte della giunta Rutelli a realizzare il punto più qualificante del programma previsto dalla legge del 1990, cioè lo SDO. D’altra parte, con la legge sulle città metropolitane del 2014, l’impalcatura della 396 del 1990 venne smontata e Roma è divenuta una sorta di grande provincia, sostanzialmente alla pari delle altre 14 città metropolitane. Oltretutto la Regione Lazio non si è voluta privare di competenze che le norme avevano indicato come trasferibili al nuovo organismo metropolitano.  

L’abbandono di ogni altra ipotesi di normativa speciale per Roma che la rendesse simile alle altre capitali mondiali costituisce ormai un elemento che rende difficile il suo futuro.

La giunta in carica aggiunge all’abbandono dello Stato per la sua capitale, una inadeguatezza politica che non si dimostra solo in forme di indecisionismo che hanno caratterizzato sia la sua stessa composizione, sia la contraddittorietà rispetto ai progetti più importanti, dalle Olimpiadi allo stadio della Roma.

Tutta la città soffre di questa inadeguatezza, ma soprattutto le periferie che, al loro abbandono, vedono aggiungersi drammatici temi sociali. Nessuno ha messo in rilievo che gli scontri di Casal Bruciato, dove alcuni residenti hanno contestato l’affidamento di un appartamento ad una famiglia numerosa di nomadi, non ha rappresentato solo un caso di grave e inaccettabile intolleranza, ma anche la plastica evidenza di una inadeguata offerta di alloggi di residenza pubblica per venire incontro a richieste di migliaia di cittadini fermi in graduatoria da oltre dieci anni. Il blocco dei programmi di edilizia economica e popolare, la mala gestione degli enti preposti all’edilizia residenziale pubblica e il blocco dell’offerta di alloggi portano a questi episodi di scontro sociale. Senza contare la questione delle occupazioni degli edifici che non rappresentano solo un disagio, ma anche una attività politica con finalità non limpide.

Questi ultimi sono solo esempi a cui, in seguito, seguiranno altri aspetti che analizzeremo e che invocano l’attenzione e la partecipazione delle organizzazioni cattoliche sociali. 

Alla sofferenza della città, al suo “grido”, come ha rilevato recentemente il Cardinal Vicario, non può non corrispondere l’impegno e la proposta dei cattolici. Dopo la denuncia dei “mali” che la cristianità romana espose nel lontano 1974, e la grave evidenza di oggi, è necessario che nuove voci si aggiungano per contribuire a “guarire” la Città.

Pietro Giubilo




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