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20/05/2019
I fondamenti delle Comunità, poi Unione
La parte monetaria ha finito con il sembrare privilegiare gli aspetti puramente finanziari

Talvolta L’Unione Europea sembra così diversa – almeno per chi ha una certa età – dall’ aspetto che aveva negli anni Cinquanta, le accuse che le si muovono sono così ampie, che vale la pena ripartire dall’inizio, e riproporre le basi e gli intenti sui quali è stata fondata. Va ricordato, prima di tutto, com’era l’Europa all’inizio degli anni Cinquanta, e da quali pericoli appariva minacciata: uscita da una guerra disastrosa, aveva appena cominciato la ricostruzione; che certo sarebbe arrivata poco lontano, nella distruzione generale – vite, beni, produzione, materiale rotabile … – senza l’intervento massiccio di aiuti da parte degli USA; aiuti offerti anche ai Paesi della zona di prevalenza sovietica, che, dopo un severo monito dell’URSS, dovettero rifiutarli. Ma le proposte di maggiore collegamento fra i Paesi europei, presentati negli anni quaranta, puntavano ad altro: a cogliere l’occasione, nella oggettiva difficoltà del momento, per spingere a forme superiori di unione, che, come si sarebbe detto esplicitamente nel “discorso dell’orologio”, portassero alla pace definitiva fra le nazioni europee. Nacque così il nuovo sistema comunitario europeo, che cercò di porre le basi per tale collaborazione attraverso la “porta” del carbone e dell’acciaio.

Fu avviato così il primo organismo sovranazionale, “europeo”, la CECA; che divenne un modello possibile, fino alla proposta della CED (Comunità Europea di Difesa) che, nelle intenzioni di De Gasperi, avrebbe implicato necessariamente, se approvata, la costituzione di un primo governo europeo fra i Paesi sottoscrittori; poi ai Trattati di Roma ed alle successive evoluzioni, compreso il “serpente monetario”, preparatorio di una futura moneta unica. Senza dimenticare il principio dell’allargamento, per il quale ogni nazione europea, se pluralistica, avrebbe potuto chiedere di associarsi; passando così dall’Europa dei 6 a quelle dei 9, e, infine, dei 12.

Nell’ottimismo dominante la politica europea in genere dopo la crisi dell’URSS, a partire del 1988 /1989, fino alla sua fine, nel 1992, si venne anche agli accordi di Maastricht, del febbraio 1992, in vigore dal 1993, e al progetto (in verità, molto astratto) di una Costituzione Europea. Si venne altresì alle ipotesi di allargamento ad Est (adesso, quegli Stati potevano chiedere la associazione). Certo, la distanza dal livello culturale e spirituale della prima generazione, dei fondatori e dei loro collaboratori, nonché dai modelli di riferimento, era diventata notevole. Accanto alla esperienza e alle convinzioni cooperative di Monnet, Schuman, De Gasperi, Adenauer si fondavano su un’ampia meditazione ed esperienza della storia spirituale e culturale europee, e, analogamente, sulla esperienza cooperativa cattolica, specie in Italia e nei Paesi di lingua tedesca. La molteplicità delle lingue culture europee non era un ostacolo al pensarle in unità, così come era stato, tanto per fare un esempio, nel tempo medievale. Nulla in comune con le ideologie e le realizzazioni totalitarie del secolo XX. L’unanimità ricercata era una manifestazione di volontà di accordo e disponibilità reciproca. Erano i valori, a guidare le scelte economiche e finanziarie, e non il contrario. Così come la proposta di costituzione – non a caso a direzione francese – era astratta, così la parte monetaria e quella dell’allargamento si sarebbero mosse secondo criteri che a distanza hanno evidenziato i loro limiti. I nuovi Stati che hanno richiesto accesso al sistema unitario hanno dovuto accettare l’acquisito – fatto forse in parte inevitabile – senza che si tenesse alcun conto della loro situazione particolare, della lunga lotta di resistenza in un sistema totalitario, della loro ricchezza spirituale. La parte monetaria ha finito con il sembrare privilegiare gli aspetti puramente finanziari, costituendo alla fine un blocco di ogni possibile sviluppo non allineato, come nel caso della Grecia, senza curarsi delle conseguenze. Un fatto impensabile, in una dimensione comunitaria.

Nel gioco degli interessi attuale in Europa, nonché, nel prevalere delle Lobby, il ritorno al riferimento ai valori appare tanto difficile, quanto necessario. Forse sarebbe ora di decidersi a non occuparsi di Europa solo quando siamo chiamati a votare, e dovremmo darci da fare per saperne di più: della sua storia, della sua cultura, prima che del suo pil o dello spread.

G. Venturi

 




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