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15/05/2019
La Trumpeconomia non sta funzionando
Da quando Trump ha preso in mano le redini degli Usa, mantenendo fede alle promesse elettorali, sta tentando di rivitalizzare la ‘old economy’ senza successo

Gli Stati Uniti e la Cina ai ferri corti da tempo nella guerra commerciale si contrastano, rispettivamente, per difendere e per conquistare la supremazia economica mondiale. Attualmente, infatti, tanto l’economia americana quanto quella cinese sono in cima alla classifica del G8 in termini di Pil prodotto anche se a livello di reddito pro-capite non c’è paragone. Più precisamente il Pil nominale cinese è circa i due terzi di quello statunitense. Mentre a livello reale, invece, considerando le statistiche del Fondo Monetario Internazionale, la dimensione del Pil cinese calcolato con la PPA (parità dei poteri d’acquisto) supererebbe quello degli Usa di oltre il 20%: con un Pil stimato in 23 trilioni di dollari contro i 19 di quello americano. Da quando Trump ha preso in mano le redini degli Usa, mantenendo fede alle promesse elettorali, sta tentando di rivitalizzare la ‘old economy’ senza successo con due strumenti: il protezionismo e la spesa pubblica finanziata in deficit. Questo perché le innovazioni tecnologiche menano le danze, mettendo in crisi i settori produttivi tradizionali, generando sacche di disoccupazione che devono essere riassorbite ma finora la Trumpeconomia non ha funzionato. Vediamone le ragioni. Da un lato i dazi doganali stanno producendo quattro effetti indesiderati: 1) non hanno contribuito a ridurre il deficit commerciale con la Cina che è aumentato passando dai 350 mld di dollari​ dell’ultimo anno della Presidenza Obama ai 419 miliardi della fine 2018; 2) non hanno stimolato le esportazioni americane in Cina che sono diminuite passando dai 13.6 mld di dollari di fine 2017 agli 8.4 di fine febbraio 2019; 3) hanno fatto aumentare i costi di produzione, i prezzi al consumo e per questo il conto salato dei dazi lo stanno pagando i consumatori americani; e 4) hanno generato preoccupazioni sul futuro andamento degli scambi commerciali e questo ha trasmesso incertezza sui mercati finanziari (andamento altalenante delle borse).

Mentre dall’altro la spesa pubblica in deficit non ha innalzato il tasso di crescita strutturale dell’economia americana che è rimasto di poco superiore al 2%. Nel contempo però si è avuto un aumento del deficit pubblico che è passato dal 3.8% sul Pil​ nel 2018 ad un previsto 5.1% nel 2019. Una spesa in deficit mostruosa, fatta in condizioni di piena occupazione (pro-ciclica), che non ha mutato di una virgola la struttura dell’economia americana ma che ha contribuito a far aumentare il debito pubblico portandolo a livelli che non si toccavano da settanta anni a questa parte. Insomma un fallimento su tutti i fronti che avrebbe dovuto portare il Presidente Trump a rivedere le sue strategie ma finora il nostro aveva continuato imperterrito nei suoi propositi. Almeno fino a qualche giorno fa. Quando nel giro di poco più di quarantotto ore è passato dalla minaccia di nuovi dazi ad un possibile accordo con Pechino entro questa settimana. Cosa lo ha spinto a cambiare idea? Una ritorsione messa in atto dai cinesi seguendo quanto fecero i giapponesi alla metà degli anni ‘90 del secolo scorso sempre nei confronti degli Usa. Di cosa parliamo? Prima dell’apertura a sorpresa di Trump, il Tesoro americano aveva seguito con trepidazione l’esito disastroso di ben due aste consecutive di Treasury bond: quella del 07 maggio nella quale si collocavano 38 mld di dollari di titoli a tre anni e quella del giorno successivo di 27 mld di dollari di titoli decennali. Ma soprattutto aveva assistito ad un crollo verticale degli acquisti​ sul mercato secondario, dove il Governo cinese è da sempre l’acquirente più importante di bond sovrani americani. I cinesi pertanto hanno fatto capire che con i flussi di capitali da loro manovrati possono influenzare l’andamento a breve dei tassi d’interesse americani e condizionare le scelte di politica economica degli Usa. Mentre la morale che possiamo trarre da questi accadimenti a mo’ di conclusione è che serve una cooperazione tra le economie mondiali per cercare ridurre gli squilibri che la globalizzazione ha generato all’interno dei singoli paesi. Visti i complessi intrecci economico-finanziari che li legano e che non portano da nessuna parte le iniziative unilaterali che qualcuno anche se il più grande tenta di intraprendere.

Marco Boleo

 

 




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