Siamo nel tempo nel quale i ritmi che la comunicazione impone sono assai più veloci della stessa politica. Ad essere provocatori diremmo meglio che il messaggio, ormai, conta più dell’azione politica. Sartori professore di scienza della politica che da Firenze era emigrato negli USA e in ambedue i luoghi era stato apprezzato, usava il termine significativo di “videocrazia”.
Del resto, parallelamente, si può dire che l’incalzare dei sondaggi, ormai a carattere settimanale, incide più dei voti degli elettori, in quanto mentre i secondi fotografano la rappresentanza reale del consenso ad ogni rinnovo di assemblea, gli spostamenti degli indici di opinione spingono a intervenire con dichiarazioni o decisioni in tempi assai più serrati.
In questo senso, quasi tutti i partiti sono “figli di Berlusconi” che per primo utilizzò questi rilevamenti come fondamento per motivare e calibrare i comportamenti politici. Per abile pratica imprenditoriale, i sondaggi lo hanno accompagnato in una lunga stagione di potere, anche se non troppo generosa nei risultati. Ma questi “figli” si sono dimostrati, a volte, meno bravi nel cavalcare i mutabili umori degli elettori misurati col telefono, anziché con la scheda elettorale.
Un esempio emblematico l’ha offerto Matteo Renzi, da più d’uno indicato come l’”erede” mediatico dell’ex Cavaliere. Sull’onda dei sondaggi, i suoi (pochi) anni di governo sono stati caratterizzati da un incessante rilancio programmatico . Ricordiamo la sua idea strategica : “una riforma al mese” e il continuo “gettare la palla in avanti”, metodo con il quale aveva governato. E gli elettori entrarono in affanno per seguire le sue “intemperanze” .
Infatti, l’errato convincimento che sarebbero bastate le sue dilaganti apparizioni sugli schermi dei media e le reiterate promesse di grandi cambiamenti per sconfiggere gli avversari, lo condussero al disastro in una serata del tardo autunno del 2016, mostrandogli la durezza del voto degli elettori, rispetto alla aleatorietà dei sondaggi e delle conseguenti illusioni .
Il governo gialloverde, sancito dal contratto dopo le elezioni del 2018, si è improvvidamente avviato sulla identica strada del leader fiorentino, oggi in affannosa ricerca di un altro mestiere.
Mentre si preannuncia una modesta adesione ai due cavalli di battaglia di 5 stelle e Lega: reddito di cittadinanza e quota cento, ecco uscir fuori di tutto dal cilindro dei vice premier: dalla devoluzione di poteri alle tre regioni del nord che lo hanno richiesto, al reddito minimo garantito; da una ancora enigmatica flat tax, ai promessi aiuti alle imprese. Poi anche una riforma della Costituzione, per inserire sulla Carta la riduzione del numero dei parlamentari, il referendum propositivo senza quorum e quant’altro. Quest’ultima promessa che nel merito appare discutibile poiché rivela un atteggiamento contrario alla rappresentanza e concorrenziale alla funzione legislativa del Parlamento, difficilmente troverà una maggioranza qualificata per l’accoglimento.
Anche su ciò che è stato approvato la realtà si rivela differente. La Magistratura, come avvenuto negli anni precedenti per altri provvedimenti, si sta incaricando di sfrondare leggi che non sempre sono in linea con i principi stabiliti dalla Costituzione. A febbraio la Cassazione ha deciso per la irretroattività della eliminazione del permesso per motivi umanitari, rispetto al provvedimento deciso in ottobre del 2018, così come, probabilmente, interverrà nei riguardi del taglio delle pensioni d’oro. Quello che più conta, però, non sono le “cancellazioni” della magistratura, ma la stessa mancata attuazione delle promesse. Già oggi queste superano di gran lunga le realizzazioni.
Nell’immediato futuro, poi, sarà sempre più difficile trovare compromessi tra le due forze politiche di governo anche perché la vicenda Siri, che promette altri e imprevedibili accadimenti, ha mostrato che l’interesse a difendere l’identità elettorale e i trend dei sondaggi è costantemente superiore alle esigenze di dare solidità ai rapporti politici tra le due componenti. Di conseguenza, non sarà facile trovare un punto di incontro su quella che viene presentata come una richiesta di autonomia regionale, mentre la riduzione delle imposte, d’altro canto, dovrà essere compatibile con i conti sempre più difficili da equilibrare. La verità è che Di Maio ha ottenuto il reddito di cittadinanza con grandi risorse a debito, esposizione che non può essere ripetuta per approvare una consistente tassa piatta che interessa, soprattutto, se non unicamente, alla Lega, come retaggio delle promesse elettorali fatte insieme al centrodestra. Incombono inesorabilmente, infatti, le clausole di salvaguardia, cresciute in modo insostenibile; di conseguenza accettare anche un modesto aumento dell’IVA renderebbe più aspri i rapporti tra Lega e commercianti, ostili all’aumento, riducendo il potere d’acquisto. Sarebbe rischioso dare con una mano e togliere con l’altra.
Un fattore determinante e non eludibile, poi, è rappresentato dalla compatibilità delle politiche di bilancio con l’Europa, su cui i “sogni nel cassetto” o, meglio, contenuti nel contratto del governo giallo-verde, si infrangono. E con essi le promesse elargite con troppa facilità.
Pietro Giubilo