Complice una storiografia non ricca e spesso ingenerosa si assiste, da sin troppo tempo, alla inesatta e confusa valutazione delle vicende del partito democristiano. Un esempio ricorrente a destra, ma, strumentalmente, anche a sinistra, vorrebbe dimostrare che una parte della DC, senza distinguerne i caratteri e le diversità, fosse partecipe del “disegno comunista”. Questo scombinato tentativo, a volte, si è rivolto nei riguardi di Carlo Donat Cattin.
Al contrario, la personalità del parlamentare piemontese - di cui ricorre il centenario della nascita - per le esperienze, i contenuti e le linee propositive, ma anche, per le distinzioni che seppe sviluppare, smentisce questa diceria e proprio il rammentare alcuni momenti della sua vita politica, consente di fare bene intendere i suoi veri propositi.
L’origine del suo impegno fu nel sindacato, facendosi portatore della visione cristiana dei rapporti tra le rappresentanze dei lavoratori, lo Stato, i partiti e la politica. Molto interessanti e poco conosciuti i suoi interventi, nei primi anni ’60, ai tre convegni di San Pellegrino – occasioni solo raramente ripetute di grande elaborazione culturale nella DC – nei quali sviluppò analisi di grande spessore. In essi distinse la visione cristiana dei rapporti sociali rispetto alle esperienze del corporativismo fascista che “integrarono il sindacato nello Stato” e dell’”ordinamento dello Stato comunista … con funzioni subalterne rispetto allo Stato e al partito”; rifiutando, poi, quella che chiamava la “depoliticizzazione del sindacato”, ritenendo la politica “in rapporto costante” con esso e non riducendola a “pura consultazione”, ma a necessaria ”partecipazione”. Affermò, già allora, la distinzione tra sindacato e partito, in tempi nei quali la CGIL era considerata “cinghia di trasmissione”. In occasione del secondo convegno del 1962 apprezzò, in particolare, la relazione di Pasquale Saraceno – uno degli estensori del codice di Camaldoli – polemizzando, invece, con Beniamino Andreatta che aveva proposto “una normalizzazione legislativa del sindacato”.
Costituì una corrente che, tuttavia, non possedeva il peso per un forte esercizio di potere. Gli era sufficiente il carisma della sua personalità. La politica di Donat Cattin aveva un suo specifico, volta, cioè, a elaborare e a dare un indirizzo politico al partito, più che risolversi in sistemi di alleanze che fossero in sé validi e sufficienti. Lo provano le due pubblicazioni a cui diede vita: Settegiorni – non esattamente un organo di corrente - a partire dal luglio 1967 e Terza fase - dalle famose parole di Moro - dal 1983. Con la prima esperienza, che nasceva mentre un vasto mondo di impegno e di matrice cattolica dava vita ed estensione al fenomeno delle riviste, esprimeva l’intenzione sia di sperimentare la possibilità per la “sinistra sociale” di avvicinare altre realtà, sia di fungere da stimolo per dare forza alla esperienza di centrosinistra che mostrava i primi segni di logoramento. Da lì a poco tempo il passaggio di Moro all’opposizione nel partito, ne segnò il sostanziale esaurimento. Gianni Baget Bozzo e Giovanni Tassani, nel volume dedicato a Moro, giudicano la rivista come “il primo segno di ciò che sarebbe diventata la ‘strategia dell’attenzione’”. Con la seconda pubblicazione che, anche in questo caso indicava la necessità di costruzione di una prospettiva nuova, Donat Cattin, in coerenza con la sua linea politica, si inseriva, proprio nell’ultima svolta che il leader democristiano aveva impresso al partito e che, sostanzialmente si esaurì con la sua uccisione.
Questo filo conduttore spiega un dato che caratterizza la sua appartenenza alla sinistra democristiana: la sua preferenza verso la cultura politica di Moro rispetto quella del lascito di Dossetti. A volte unite per ragioni di tattica congressuale, la “sinistra sociale “ e quella di “base”, ebbero connotati diversi proprio in ordine al rapporto con il PCI verso il quale il parlamentare piemontese non ebbe mai complessi di inferiorità e ne contrastò il filo rosso dell’egemonia, mentre altri ebbero qualche cedimento. Nel 1961, sempre a San Pellegrino, aveva espresso un chiaro avvertimento: “assisteremmo certamente alla sconfitta del movimento dei cattolici democratici se pensassimo che solo un integrazione democratica del socialismo possa congiungere la classe operaia allo Stato”. Quando convenne sul momento culminante della politica di solidarietà nazionale, cioè il governo con il PCI, lo fece soprattutto perché convinto della garanzia e indispensabilità della guida politica di Aldo Moro. Tanto è vero che, esauritasi quella esperienza, predispose il “preambolo” che portò alla segreteria Piccoli, contribuendo a mettere all’opposizione De Mita e Andreotti.
Non è particolarmente elegante esprimere illazioni su ciò che avrebbe deciso Donat Cattin nel tempo ultimo della crisi del partito democristiano. Però di una cosa si può stare certi: non avrebbe partecipato alla esperienza dell’Ulivo ed al successivo assorbimento nel Pd. Le scelte di Franco Marini, rispetto allo spessore della politica di Donat Cattin non fanno testo. Altri, infatti, culturalmente più attrezzati, come Sandro Fontana – che fu direttore del “Popolo” ed europarlamentare del CCD - presero altre strade.
Non ci piacciono le scorciatoie di analisi che spesso compaiono nel valutare l’operato delle figure democristiane. Lo abbiano sottolineato per Andreotti, la cui biografia di Massimo Franco non ha entusiasmato la famiglia del leader del quale si è ricordato il centenario della nascita. Lo pensiamo anche per quelle valutazioni che dipingono Donat Cattin, per la stessa ricorrenza, come un “bastian contrario”, magari per turbolenza di carattere.
Donat Cattin amava il popolo e la parte che riteneva più esposta e cioè gli operai, ma non perché, come sosteneva Scoppola, la classe operaia rappresentasse, con la base comunista, una “riserva etica” per il Paese. Il suo era un autentico popolarismo che lo portava ad affermare che “il partito deve essere strutturato in modo da non consentire la gestione del suo potere al notabilato, ma da rendere le procedure di assegnazione del potere un fatto di carattere veramente popolare”. Interpretò un popolarismo che ancora oggi, nella doverosa riflessione sul vecchio leader scomparso, rappresenta un valore indispensabile per la politica e la rappresentanza democratica.
Pietro Giubilo