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18/02/2019
È davvero questa l’Europa che vogliamo?
La protesta dei pastori sardi non è solo una battaglia di categoria bensì la battaglia di un’intera Nazione.

Sicuramente non può dirsi solo una questione di lana caprina, infatti la protesta dei pastori sardi non è solo una battaglia di categoria, ma di un’intera nazione che, meno di un secolo fa, nella pastorizia e nell’agricoltura trovava la principale fonte di autosostentamento.

In Sardegna i pastori si sono fortemente specializzati nella produzione del latte per effetto dell’estensione negli anni ‘50 della dop del pecorino romano, uno dei prodotti più esportati al mondo, orientata soprattutto a percepire i cosiddetti montanti compensativi di premi europei per l’esportazione; cosa che di fatto ha drogato l’espansione della vendita soprattutto negli Stati Uniti. In sostanza per ogni chilo di pecorino esportato extra UE veniva riconosciuto un compenso ai produttori. La crisi è iniziata quando gli Stati Uniti, anziché valorizzare il prodotto finito, hanno iniziato a usare il pecorino romano come prodotto a basso costo per la produzione di semilavorati per formaggi fusi con la conseguente cessazione dei premi europei che ha fatto saltare i margini di convenienza della produzione del latte, mettendo in crisi il sistema caseario.

In questi giorni vediamo quelle scene raccapriccianti di pastori sardi che gettano “l’oro bianco”, ovvero il latte, in strada. Stanno addirittura minacciando di bloccare le elezioni regionali di fine mese se non si troverà una soluzione al problema del prezzo del latte. Una miseria, secondo il loro punto di vista, il prezzo di 60 centesimi al litro a cui sono “costretti” a vendere il prodotto delle preziose mammelle dei loro ovini alle aziende casearie, produttrici soprattutto del noto marchio Dop Pecorino Romano.

Dalla loro parte si schiera anche Diego Fusaro, saggista e docente italiano che su Twitter pubblica una foto che a suo dire mostra un tir carico di latte rumeno sbarcato in Sardegna sotto scorta dei carabinieri. Egli in breve denuncia la pratica, ancora in corso, di far giungere in terra sarda latte proveniente dalla Romania, costretto però a viaggiare su camion che devono essere scortati dalle forze dell’ordine per evitare la furia dei produttori locali del nutriente liquido bianco. Di fatto si tratta di una situazione scandalosa, Fusaro continua: “eccola, la vostra maledetta globalizzazione capitalistica, i sardi debbono bere latte rumeno, i siciliani mangiare arance marocchine”.

D’altro canto la cosa non mi stupisce affatto, si perché anche il “Made In” della moda è affidato all’estero con la complicità dei Governi e dell’Europa. Infatti anche la moda italiana ha un lato oscuro proprio nel cuore della vecchia Europa. Coloro che confezionano per le grandi firme spesso sono costretti a lavorare senza diritti, senza tutele, senza le minime libertà. Questo accade in Moldavia, Romania, Bulgaria, dove scopriamo cosa si nasconde dietro il marchio Made in Italy.

Avete mai sentito parlare di Transnistria? Essa è una striscia di terra larga venti o trenta chilometri e lunga quasi duecentocinquanta, posta a ridosso del confine ucraino. Ufficialmente questo Stato non esiste, non è riconosciuto da nessuna organizzazione internazionale e nessun Paese al mondo ci tiene a ricordarne l’esistenza. Eppure esiste. La sua principale fabbrica di capi d’abbigliamento è costituita da un bel palazzo di sei piani, moderno, proprio al centro della città. I tavoli da lavoro sono ben allineati e alle macchine da cucire ci sono ragazze con addosso un grembiule blu che lavorano a ritmo frenetico. Quello che in Italia costerebbe cinquanta euro e in Romania trentacinque, qui lo possono produrre addirittura a venti. Questo solo conta per chi deve guadagnarci. Che le operaie sedute alle macchine non abbiano alcun diritto e siano sottopagate, non importa a nessuno. E qui mi viene da chiedere: dov’è l’Unione Europea??

Ma lo schiavismo è diffuso anche altrove. La produzione di quasi tutti i capi firmati dai più prestigiosi nomi della moda italiana prevede l’impiego di cingalesi, bengalesi, cinesi, tutti così disperati e bisognosi di portare da mangiare alle famiglie a sette, ottomila chilometri di distanza, che si accontentano di starsene fuori casa per due anni e di vivere a cinque metri dalla macchina di lavoro. Questo avviene in Romania, dove vengono “importati” i lavoratori, dopo che gli operai del posto hanno iniziato a stancarsi di lavorare a 230, massimo 260 euro al mese. Ad alcune macchine vengono impiegate solo le donne agili nel movimento delle dita. Per garantire la sicurezza del lavoratore, le operazioni dovrebbero essere eseguite non troppo velocemente. Invece qui si fa tutto il più veloce possibile.

Non molto meglio va in Bulgaria, dove sorgono vere e proprie carceri, dove il salario medio delle operaie va da 120 a 130 euro al mese. Tra polvere, olii, pattume ammucchiato negli angoli e vite inchiodate a una macchina per cucire per dieci ore al giorno, si producono giubbotti, pantaloni e giacche con maniche impolverate, baveri sgualciti, residui di cotone appiccicati, che poi vengono smacchiati e riparati. Condizioni di lavoro così vergognose non sono casi isolati e gli operatori del settore ne sono tutti a conoscenza, dal primo all’ultimo: compresi alcuni famosi stilisti. Una ragazza rumena che sta alla macchina da cucire guadagna circa 3000 euro l’anno, una bulgara ne prende 1700, una della Transnistria ne porta a casa 1300, forse 1500 compresa la tredicesima, se la prendono.

Ma alla fine come si suol dire tutto il Mondo è paese. In Italia la logistica schiavizza gli immigrati per poter ottemperare ad i ritmi frenetici delle aziende e dei corrieri. Si perché gli immigrati producono di più ed intanto gli italiani vanno a casa. Ecco la fotografia della logistica in Italia. Sì, è vero, gli stranieri residenti nel nostro Paese hanno più lavoro degli italiani, e con la ripresa dell’economia la loro occupazione sta crescendo più di quella dei locali. È un dato che probabilmente è destinato a rinfocolare una guerra tra poveri in Italia, soprattutto visto che è proprio tra gli immigrati che possiedono un basso titolo di studio, e non tra i laureati, che aumentano le possibilità di lavoro. È quanto ci confermano gli ultimi dati ISTAT, che mostrano che dalla fine alla recessione ad oggi il tasso di occupazione dei cittadini stranieri residenti nel nostro Paese (59,7%) è cresciuto quasi di pari passo con quello degli italiani (56,92%).

La statistica più significativa però è quella relativa ai dati assoluti. In breve la crescita del numero di occupati stranieri è stata del 8,5% a inizio 2017 rispetto al primo trimestre 2014, mentre quella di occupati italiani del 2,59%. Per essere ancora più chiari in confronto a cinque anni fa ci sono circa 701 mila lavoratori in più, e di questi 514 mila sono italiani, e 187 mila stranieri, ovvero il 26,7% dei nuovi occupati è immigrato, una proporzione molto maggiore di quella presente globalmente nel nostro Paese, inferiore al 10%.

Essa è la dimostrazione delle condizioni strutturali della nostra economia, che ha necessità di un lavoro poco specializzato e qualificato, per non dire disponibile allo “sfruttamento”. Una domanda di lavoro che genera una competizione tra italiani e stranieri concentrata solo in alcuni settori, e per questo probabilmente ancora più pericolosa.

 

Se la presenza degli stranieri si concentrerà sempre più solo in alcuni settori, quelli in cui gli stipendi sono più bassi e la disoccupazione maggiore, sarà inevitabile l’accentuarsi dell’attrito con quella parte di italiani più sensibile al messaggio para-razzista, agli allarmi sull’”invasione”, specie in questo periodo storico!

 

Luca Cappelli

 




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