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25/01/2019
No ad una cultura populista sì ad una cultura popolare
Dalle vecchie alle nuove categorie passando per le esigenze del Paese

Già tanti anni fa Giorgio Gaber si interrogava così: “cos’è la destra cos’è la sinistra” ma mentre negli anni addietro era solo la trovata geniale e provocatoria di un grande artista, oggi questa domanda assume tutto un nuovo significato.

Ci troviamo, infatti, indiscutibilmente di fronte ad una crisi delle appartenenze politiche che rischia di contagiare le stesse istituzioni democratiche e la democrazia rappresentativa. Il 63% degli italiani ha recentemente dichiarato di non credere né alla destra né alla sinistra, che, tra i due ottantanove (1789 e 1989 dalla rivoluzione francese alla caduta del muro di Berlino), hanno conformato schieramenti e partiti.

Occorre chiederci se, con la fine delle ideologie, il significato tradizionale di destra e di sinistra abbia mutato di senso oppure se esse siano state sostituite da altre categorie politologiche, come quelle del nord e del sud.

Inoltre, per il contesto italiano, non va dimenticato il ruolo e il destino del centro politico, in cui convergono i programmi e gli ideali del cattolicesimo liberale e democratico.

Può sembrare strano ma il significato di destra e sinistra non risponde alla massima romana di nomen omen, per cui il nome rivela il senso.

Sono i deputati dell’Assemblea nazionale francese, nel 1789 a risignificare questa coppia di parole per indicare una differenza politica: a destra del presidente dell’Assemblea si schierano i conservatori a sinistra i rivoluzionari.

In Italia, le categorie di destra e di sinistra si sono consolidate a partire dalla metà dell’Ottocento circa, ma sono state le varie stagioni politiche a definirne contenuti e confini.

Il Centrodestra, la destra liberale governò l’Italia post unitaria dal 1861 al 1876, organizzando le istituzioni, intervenendo sulle finanze e organizzando le infrastrutture. Dal 1876 toccò governare ad una sinistra moderata, quella di Depretris che riformò l’istruzione elementare obbligatoria e il fisco e estese la base elettorale.

Con il partito socialista, nato nel 1892, la sinistra diventa un prisma dalle molteplici facce e, forse questo impedisce la nascita di una sinistra unitaria, la stessa cosa accade a destra dove troviamo non poche differenziazioni.

Lo scenario politico attuale impone di utilizzare i termini destra e sinistra con molta cautela.

Per milioni di persone, appartenere all’una o all’altra area significava credere in un valore identitario, una sorta di credo politico, un progetto da realizzare, un riconoscersi senza conoscersi attraverso una cultura politica. Voleva dire portare avanti gli ideali trasmessi dai nonni e dai genitori o scegliere per “fede” di appartenere a quell’area. Attualmente le categorie di destra e sinistra sono diventate fluide e porose: si può essere di destra e insieme anche di sinistra, i temi si intrecciano e, a volte, si confondono, i contenuti prevalgono sulle appartenenze.

L’effetto della cultura della “non appartenenza”, soprattutto sulle giovani generazioni, ha generato un voto fluido, sempre meno prevedibile e basato sul consenso e non più sulla partecipazione e sul senso di identità all’interno di uno schieramento. Questo processo ha così de-ideologizzato la politica, svuotando le ragioni della destra e della sinistra, ha mortificato il ragionamento politico e semplificato le soluzioni. Il 43 % dell’elettorato dichiara di essere disposto a cambiare radicalmente il proprio voto da un’elezione ad un’altra.

Il principale dato politico è la riduzione del ceto moderato che è sceso al 21% all’ultima tornata elettorale.

Ma c’è di più, guardando i dati delle ultime elezioni si evince che le categorie di nord e sud stanno nettamente prevalendo su quelle di destra e sinistra: appartenenza territoriale, sospetto verso le istituzioni, distanza dall’UE, contrarietà alla moneta unica, misure costose come il debito di cittadinanza , la flat tax e l’abolizione della riforma Fornero.

Il nord ricco difende ciò che ha conquistato, il sud povero cerca un riscatto dalla disoccupazione e dalle situazioni sociali difficili.

Queste due nuove categorie hanno un punto in comune: la chiusura nella propria sovranità.

Così la politica è portata a concentrarsi sui singoli temi senza quel disegno generale di sistema che caratterizzava la destra e la sinistra. Il sud, in particolare, più che di politics (gestione del potere) avrebbe bisogno di policy (programmi e progetti); non di sussidi monetari, ma di impegno dei fondi disponibili europei e investimento di competenze.

È stato lo svuotamento del centro a causare la crisi della destra e della sinistra? Potremmo definirla una domanda dalle risposte complesse, ma quello che è certo è che il centro politico, (quello lontano dagli estremi) è stato negli ultimi 200 anni il ponte in grado di collegare rive politiche lontane.

Si qualifica per il gradualismo delle riforme, per la moderazione dei linguaggi e dei comportamenti e per la cultura della mediazione, tesa a cercare punti di equilibrio. È, infine, una cultura interclassista, che riduce le disuguaglianze tra le classi sociali.

Il centro politico, inteso come centralità, è come nella rosa dei venti: rappresenta l’intersezione dove le politiche di destra e sinistra ma anche le politiche di nord e sud sono obbligate a passare per mantenere il Paese nell’assetto democratico. Una sorta di terra di mezzo tra diversi che hanno a cuore il bene del Paese.

È il punto di intersezione per le politiche di fiducia; altrimenti la sfiducia, le paure, e le differenze aumentano i consensi, ma rendono ingovernabile il Paese.

Le forze populiste o plebiscitarie, certo rischiano di non alimentare una nuova fase di partecipazione costruttiva, anzi il loro appello alla tecnica pensata come neutrale tende a limitare il dibattito sulle questioni procedurali, mentre rimangono irriducibili le distanze sul piano ideale: concorrenza, disoccupazione, immigrazione, famiglia, frontiere, trasparenza, giustizia non sono discusse nel loro significato, ma utilizzate come bandiere da sventolare, attorno alle quali aggregare consenso in ricette preconfezionate da approcci ideologici o utopici.

La centralità della politica dovrebbe, invece, favorire relazione e incontro, una sorgente da cui possano scaturire norme sociali per regole comuni.

L’elettorato moderato è però, oggi, orfano di punti di riferimento di rilievo, o almeno sembra. Basterebbe capire che tornare ad essere popolari non significa formare o sommare forze politiche, ma permettere che si converga in quello spazio di centro volto a custodire da sempre , grazie alla mediazione politica una cultura liberale moderata e democratica.

Riconoscere la cultura politica popolare aiuterebbe il dialogo in favore del bene di tutti.

È questa la via del “possibile significativo”, che non si basa su ideologie, né sul consenso a breve durata delle categorie nord e sud. Inoltre, non si tratta di tattica, ma di strategia per costruire il bene comune, da realizzare con uomini politici capaci di amministrare.

Tornare ad una cultura popolare è la sfida della politica odierna, la politica che vuole davvero essere rilanciata, quella con la P maiuscola che illumina in controluce la S di servizio.

Promuovere il ritorno ad una cultura popolare rimarrà per noi del MCL sempre una priorità, almeno fin quando il Paese ne avrà esigenza.

Fausta Tinari

 




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