I cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti segnano, oggi più che mai, il passaggio di un’”epoca”. La sua figura politica, alla luce delle logiche odierne, risulta forse ancora attraente, ma quasi incomprensibile nelle sue ragioni più profonde.
Tende a prevalere, nella descrizione del suo impegno politico, l’aspetto istituzionale, cioè la figura dello statista, ma visto sotto la prospettiva dell’abilità e qualità delle sue doti di governo. E non vi possono essere dubbi circa il suo apporto alla governabilità di un sistema politico di democrazia rappresentativa, con regole elettorali proporzionali come quello italiano, che richiedevano capacità di mediazione e un forte richiamo partecipativo che si realizzava attraverso partiti a base popolare. Con Andreotti, peraltro, si è manifestata, per alcuni decenni, la capacità della classe politica di assumere la responsabilità di governare, anche nel senso di amministrare lo Stato, senza dover necessariamente ricorrere a “competenze” o all’arruolamento politico di “commis d’Etat”.
Da molti, si ritiene essere stato meno di rilievo il suo impegno nel partito della DC, quasi a voler chiuderne la figura in una debordante angolatura di potere. A tal riguardo viene utilizzato l’argomento dei ridotti ruoli di partito, rispetto a quelli, assai più significativi, di governo. A parte il fatto che , invero, per buona parte della sua vita partitica Andreotti guidò una componente che , anche attraverso dibattiti e pubblicazioni, partecipò in modo determinante alla vita congressuale della DC, la superficialità di tali valutazioni non tengono nel dovuto conto non solo la militanza e l’impegno nelle organizzazioni cattoliche, ma anche l’attenzione verso i contenuti e le linee propositive dei programmi del cattolicesimo politico.
Il crogiolo della Federazione Universitaria dell’Azione Cattolica, infatti, fu l’humus dal quale trasse non solo quei rapporti che lo avviarono alla politica, ma attraverso la collaborazione con il periodico “Azione Fucina”, diretta da Aldo Moro, sviluppò quelle tematiche con le quali fece i primi passi, partecipando, a fianco di De Gasperi, alla stesura dei più rilevanti documenti programmatici dell’ impegno sociale dei cattolici nel dopo guerra.
De Gasperi, come racconta Massimo Franco, gli aveva consigliato la lettura del codice di Malines e di certo questo gli consentì, di inquadrare il senso politico delle riunioni che si svolsero a casa di Sergio Paronetto, a cominciare dal luglio del 1943, alle quali partecipava, accompagnando De Gasperi. In quegli incontri , le migliori intelligenze cattoliche misero a punto quel Codice di Camaldoli che, come venne approfondito in un convegno del 2011 alla LUISS, contribuì al formasi della costituzione economica italiana.
Andreotti è stato uno dei pochi politici a mettere nel giusto rilievo quel lavoro preparatorio dedicando un intero capitolo , significativamente intitolato “In casa Paronetto”, nel suo “De Gasperi visto da vicino” scritto nel 1986. In quelle riunioni, scrive Andreotti “vi era un genus mixtum di politici ed esperti economici … il discorso verteva sulla realtà che la guerra disastrosa andava ormai delineando per il ‘dopo’ … Di Sergio Paronetto, ospitante e coordinatore, vidi subito il grande rispetto che ne aveva De Gasperi, con una fiducia nelle sue previsioni ed analisi che raramente gli avrei constatato in seguito verso altri consiglieri economici. Ed invero è difficile trovare un equilibrio tra informato realismo e ispirazioni fondamentali quale si riscontrava negli scambi di vedute nell’appartamento di via Reno. Qui, auspici Montini e De Gasperi , ebbe inizio il lavoro di aggiornamento e ‘nazionalizzazione’ del ricordato documento di Malines che si concluse con il codice di Camaldoli”; considerato da opinioni qualificate “specchio genuino delle impostazioni generali e del pensiero di Sergio Paronetto”, oltre che di Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni.
Vale la pena di ricordare che quel documento è stato definito da Francesco Forte, Enzo Scotti e da altri come “di economia sociale di mercato”, per la sussidiarietà in esso indicata e la valorizzazione delle comunità intermedie e per “quella concezione di un rapporto tra Stato e mercato , tra società e Stato che sfuggono alla trappola di una alternativa secca tra liberismo e statalismo”. Era la strada indicata dal popolarismo alla quale, ancora oggi, si possono allacciare speranze e progetti .
Andreotti fu sempre presente ed attento verso ciò che si muoveva nel cattolicesimo sociale e di base. Questo spiega non solo il già ricordato inizio del suo impegno nella Fuci, ma anche la vicinanza a Comunione e Liberazione , della quale diresse, anche oltre il suo impegno politico attivo, fino al 2012, il periodico 30 giorni. Guardò con simpatia a quelle realtà, come il Movimento Cristiano Lavoratori, che restarono fedeli alla Dottrina Sociale della Chiesa, nei tempi che videro emergere il progressismo dei “cattolici adulti”.
A questo proposito, duole ricordare che le istituzioni avrebbero avuto modo di usufruire della sua grande esperienza politica negli anni della grande confusione, quando, già nominato componente a vita, ad aprile del 2006, fu candidato “superpartes” alla presidenza del Senato, dal centrodestra. Gli si contrappose, vincendo per pochi voti, Franco Marini, sostenuto dalla Margherita di Prodi e dai Ds, che nel 1991 lo stesso Andreotti aveva voluto nella prestigiosa posizione di capolista alle elezioni politiche nel collegio di Roma e del Lazio.
Complessivamente, per quelle radici nel pensiero sociale dei cattolici, per qualità esperienza delle persone, per conoscenza e rappresentatività della complessità sociale e delle istituzioni, la politica del lungo tempo di Andreotti fu vicina alla gente. Essa oggi, invece, è lontana e difficilmente riproponibile. Parafrasando i suoi scritti, si può affermare , con qualche rammarico, che ai cittadini di oggi non è consentito né di viverla, né di vederla da vicino.
Pietro Giubilo