Il 27 maggio 1952, cinque anni prima di quando, in Campidoglio a Roma, nacque la Comunità Economica Europea, i paesi aderenti alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, firmarono il trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa - cioè l’istituzione di un esercito comune europeo - che, tuttavia, sarebbe dovuto entrare in vigore con la ratifica dei parlamenti nazionali. E’ noto che fu l’Assemblea nazionale francese che, il 30 agosto del 1954, respinse il trattato istitutivo, decretando la fine di quello che sarebbe stato il più importante passo verso l’Europa politica.
Dopo molti decenni nei quali la questione era stata sostanzialmente accantonata e che vide qualche iniziativa franco-inglese finalizzata unicamente a dar vita a missioni militari comuni, nel Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, venne ripreso in maniera più organica l’argomento, con la previsione di realizzare una cooperazione strutturale permanente (PESCO) specifica per l’ambito della difesa. Trascorsi altri 8 anni e con decisione dell’11 dicembre 2017, il Consiglio dell’Unione europea ha istituito questa struttura, cui partecipano 25 stati membri, ma con l’assenza di alcuni Paesi tra cui, ovviamente, la Gran Bretagna.
Tuttavia tale organismo non si può tradurre, automaticamente, nella creazione di un esercito europeo, né equivale alla realizzazione della difesa comune, ma rientra in una logica di razionalizzare delle missioni comuni e volta a sviluppare, in un modalità più ravvicinata, gli investimenti negli strumenti di difesa degli stati membri. All’inizio, prevedendo meccanismi partecipativi differenziati in funzione delle reali capacità militari, poi, senza limitazioni, ma lasciando ai singoli stati aderenti di dosare la partecipazione nell’ambito che riterranno opportuno.
Per l’avvio di una procedura verso la costituzione di un esercito comune occorrerebbero decisioni di carattere unitario da parte del Consiglio della Ue, che scaturirebbero unicamente dalla volontà politica di percorrere un cammino verso una politica estera e di difesa comune. Cioè un concreto passaggio ad una fase squisitamente politica della costruzione europea.
Più di 64 anni dopo la decisone politica francese di non approvare il Trattato della CED , cioè a novembre di questo anno, è sembrato riaffacciarsi la possibilità di riprendere, politicamente, il progetto, questa volta su dichiarazioni di intenti di iniziativa francese.
Il 6 novembre, il presidente Macron , intervistato da Europe 1, ha riaffermato un concetto in questa prospettiva : “Non proteggeremo gli europei se non decideremo di avere un vero esercito europeo . Di fronte alla Russia, che è alle nostre frontiere e che ha mostrato di poter essere minacciosa … dobbiamo avere un’Europa che si difende da sola, senza dipendere esclusivamente dagli Stati Uniti, e in maniera più sovrana”. Il Presidente francese ha, poi, citato “forze autoritarie che stanno rinascendo e si stanno armando ai confini dell’Europa” esortando gli Stati europei a “proteggerci dalla Cina, dalla Russia e dagli Stati Uniti stessi”. E nella parte finale, parlando dell’intenzione di Trump di ritirarsi dal trattato sul disarmo nucleare siglato negli anni ’80, Macron ha aggiunto: “Chi è la vittima principale? “e si è risposto: “L’Europa e la sua sicurezza”.
Idee degne d’attenzione ed anche un po’ discutibili, fatto salvo che, nei giorni successivi, L’Eliseo ha spiegato che le frasi di Macron sul futuro esercito europeo erano state riportate in modo non corretto.
Non vi è dubbio che le modalità della iniziativa e alcune affermazioni dell’inquilino dell’Eliseo non possono non suscitare una certa diffidenza che richiederebbe una verifica nei riguardi di questo nuovo atteggiamento di Parigi che, sul piano delle politica estera e di difesa, ha spesso avuto, in passato, una posizione nazionalista. Ne testimoniano sia le azioni francesi verso la Libia: da Sarkozy allo stesso Macron, sia, sul piano militare, la ancor più indicativa scarsa disponibilità ad accettare la condivisione della responsabilità della sua forza nucleare, elemento strategico fondamentale , strettamente connesso alla questione di una “difesa comune dell’Europa”. A tal proposito, Sergio Romano il 18 novembre sul Corriere della Sera, ripercorrendo un po’ di storia, ha ricordato che un possibile progetto di “costruzione di una atomica europea fu messa a punto nel 1956 dai ministri della difesa Jacques Chaban-Delmas, Franza Josef Strauss e Paolo Emilio Taviani … ma il progetto fu accantonato quando il generale De Gaulle , tornato al potere nel maggio 1958 decise che la bomba sarebbe stata esclusivamente francese”. Dopo di allora l’atteggiamento “militare” della Francia non è mai sostanzialmente cambiato.
Del resto lo spunto politico dal quale è partito questo rilancio francese dell’ipotesi di un esercito comune è, sia la dichiarata necessità di “difendersi dalla minaccia russa”, sia, nello stesso piano , di diffidenza verso la “dipendenza” dagli Stati Uniti, forse in funzione del ricorrente sospetto che Trump possa aprire ad una intesa con Putin. Tutto ciò può far pensare che Macron abbia avviato la questione, non per affermare una visione strategica in funzione di una unità politica dell’Europa, ma in un quadro di schermaglie diplomatiche con Oltreoceano.
A conferma del senso dell’intervento dell’ambasciatore Romano di cui sopra, vi può anche essere il sospetto che non si tratti soltanto di realizzare una Europa più responsabile e indipendente dalla superpotenze, - atlantismo ed europeismo non sono incompatibili - ma dell’ avvio di un progetto di esercito comune, il cui comando si collocherebbe a Parigi, poiché l’elemento determinante, per stabilire i ruoli, sarebbe il possesso dell’elemento dissuasivo strategico più importante e cioè l’arma nucleare che, senza esplicite dichiarazioni differenti, resterebbe in mano francese. L’uscita della Gran Bretagna favorisce nettamente questa condizione di supremazia francese , poiché è evidente che la Germania non ha alcun progetto in tale direzione, anzi sta abbandonando parte dello stesso nucleare civile, e l’Italia, a parte le sue condizioni economiche e l’abbandono del possibile uso civile , invano ritentato da Berlusconi alcuni anni fa’, è firmataria del Trattato di Non Proliferazione che avvenne con una decisione nella quale non tutti, in sede politica e diplomatica, all’epoca, furono d’accordo.
L’intervento di Macron, che potrebbe nascondere una realtà diversa, resta, comunque interessante, perché mette il dito su un limite obbiettivo dell’attuale condizione dell’Europa. Anche per ciò che concerne la sicurezza e l’antiterrorismo, con la necessaria ottimizzazione e coordinamento dell’”intelligence”.
Nelle settimane successive alla presa di posizione del presidente francese sull’”esercito europeo”, si sono rovesciate sulla Francia violente manifestazioni di piazza contro il presidente, sviluppate con una inaccettabile violenza. Probabilmente tra i due aspetti non vi è alcuna relazione, ma solo una sfortunata coincidenza. Pur non minando la stabilità politica del sistema, tuttavia ne hanno messo in serie difficoltà la guida istituzionale, con un sostanziale ridimensionamento politico, rispetto alle aspettative che la sua elezione –presentata come una operazione immagine, in alternativa al “rischio” lepenista - aveva suscitato. L’Europa, anche per i recentissimi fatti di Parigi ad opera dei “gilet jaune”, mostra ancora una volta il suo volto sofferente e le sue fragilità. Siamo ad un punto zero, ove ciò che è stato costruito, anche se contiene errori e disattenzioni soprattutto vero l’aspetto sociale e della reale difficoltà di crescita, rischia di essere annullato. Al centro delle elezioni del prossimo anno vi è la questione della dimensione politica dell’Europa.
Nel Manifesto con il quale, per iniziativa e a partire dall’impegno di Costalli e Cesana, si chiede un “ Si all’Europa per farla” , vi è, tra gli altri temi, quello della “politica estera e di difesa comune”, in condivisione con quanto propone il PPE sostenendo una ”unione europea della difesa”. Un tema, descritto nella biografia di Craveri come l’”ultima spina di De Gasperi”, tradito nel 1954, sottaciuto per troppi anni, ma che, forse, oggi, può essere riaperto.
Pietro Giubilo