PRIMO PIANO
08/11/2018
Si fa presto a dire contratto
Il triste epilogo delle ideologie, cui si sovrappone quello della cultura politica, dimostra che l’uomo brancola alla ricerca di un’identità politica

«Abbiamo firmato un contratto di governo che va rispettato da entrambi i contraenti» (Luigi Di Maio, vicepremier, sul reddito di cittadinanza). «Io mi sento un po’ di destra in una cosa: se c’e’ un contratto lo si deve rispettare e poi non si può criticare» (Giulia Bongiono, ministro della Pa, sempre sul reddito di cittadinanza). «Noi siamo contrari alla Tav, e soprattutto è nel contratto di governo» (Luigi Di Maio, vicepremier, sulla Tav). «Io sono pronta ora conta il rispetto del contratto di governo. L’autonomia è un percorso partito dalla gente ed è una strada a senso unico» (Erika Stefani, ministro degli affari regionali sull’autonomia delle Regioni). «Il ministro dell'Economia Tria deve fare quello che dice il contratto di governo. Lo deve rispettare lui come lo rispettiamo noi tutti» (Matteo Salvini, vicepremier su Alitalia)

Potremmo continuare a lungo. Diversamente dal 2001, quando Silvio Berlusconi firmò il primo “contratto con gli italiani” in diretta tv a Porta a Porta, impegnandosi a non ricandidarsi se avesse mancato nella realizzazione dei punti sottoscritti ne è passata di acqua sotto i ponti. Non si è dimesso nessuno, si sono ricandidati tutti, compreso Renzi che fece analoghe promesse, ma soprattutto l’idea che dopo la fine della politica si aprisse la stagione dei contratti si è affermata sotto tutte le bandiere ma soprattutto sotto quelle della destra.

Il motivo per cui l’idea del contratto seduce più facilmente i nipotini della cultura liberale rispetto ai  post-marxisti è noto: nell’armamentario ideologico-culturale del centrodestra l’idea del contratto è centrale e viene associata al Dna della “nuova” classe politica. Nello story telling che il centrodestra ama far di se stesso, le professioni liberali del centro-sud e gli imprenditori del Nord si sarebbero fatti carico del rinnovamento del Paese proprio passando – necessariamente e obbligatoriamente – attraverso la “privatizzazione” delle funzioni politiche, espropriandone la classe dirigente precedente, formatasi attraverso un percorso culturale in cui si affermava per contro il primato della politica, intesa come sintesi cooperativa per gestire insieme il bene comune (cattolici) piuttosto che come momento (temporaneo) di sintesi della dialettica di classe (marxisti).

Mentre però il marxismo come il cattolicesimo democratico hanno avuto la possibilità di improntare regimi più o meno prolungati alle rispettive dottrine politiche le democrazie liberali non riuscirono mai a sostituire la prassi della politica – intesa come composizione degli interessi attraverso un potere carismatico, capace di appianare le liti con la propria auctoritas – con la forza del contratto privato. Tutto l’Illuminismo s’innamorò dell’idea di rifondare la democrazia sul contratto sociale, ma solo Benjamin Constant arrivò a teorizzare un mondo in pace grazie all’imperio universale dei commerci. Due secoli dopo, la globalizzazione ha dimostrato che aveva ragione – il commercio unisce e travalica ogni divisione politica – e torno – il commercio globale non garantisce la pace – ma nessuno ha mai dimostrato che basti un contratto a mandare in pensione la politica.

Anzi, la fase storica sta dimostrando esattamente il contrario. Il triste epilogo delle ideologie, cui si sovrappone quello della cultura politica, dimostra che l’uomo brancola alla ricerca di un’identità politica e di leader capaci di violare le regole per promettere ai loro seguaci un più vero benessere. Esattamente il contrario del mondo di Constant. Eppure, proprio i sovranisti, che danno la stura a questa domanda di politica che emerge dai bassifondi della società europea e mondiale, non trovano di meglio, per fondare la loro autorità, di richiamarsi al contratto, che è per antonomasia uno strumento impolitico. Quando l’alleanza di governo penta stellata mostra la corda, quasi per un riflesso condizionato, i suoi esponenti si appellano ad uno strumento privatistico e vagheggiano – pur dichiarandone la temporaneità – un mondo politico in cui sia possibile regolare “contrattualmente” i rapporti tra le parti, i poteri, i partiti, le masse elettorali. E’ una tentazione ricorrente che dimostra debolezza e rende inquietante questa fase politica, perché chi è stato investito del consenso elettorale non sembra in grado di trasformarlo in azione politica, tant’è che si trincera dietro contratti e procedure. La posizione di chi si sente assediato. Lo era anche Constant quando difendeva le idee liberali nel Tribunato. Fu esiliato dalla Francia nel 1802, solo due anni prima che Napoleone diventasse imperatore.

Stefano Giordano




Via Luigi Luzzatti 13/a - 00185 ROMA - Tel +39-06-7005110 - Fax +39-06-77260847 - [email protected]
2012 developed by digitalset digitalSet