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25/02/2015
Una scuola moderna valorizza e responsabilizza tutte le forze della comunità
non è quella che usa i tablet o insegna le teorie del gender e l’educazione sessuale

Domenica scorsa alla kermesse del PD, il premier Renzi ha parlato di educazione e scuola, in quella che si annuncia come la settimana decisiva per la “Buona Scuola”, che rappresenta uno dei punti qualificanti l’attività di governo. Come per il Jobs Act, è difficile sapere cosa veramente sarà la “Buona Scuola” fino a quando non la leggeremo sulla Gazzetta Ufficiale, anche se qualche indicazione il premier e il ministro Giannini l’hanno data. La sfida più grande è quella di eliminare il precariato nella scuola e per questo è prevista l’assunzione di 120 mila precari con l’aumento del 10 per cento degli insegnati stabili. Allo stesso tempo, si vuole promuovere il merito come leva per la carriera e riscoprire l’importanza e il ruolo sociale, come quello di un tempo, degli insegnati. Altri punti qualificanti la riforma sono un’effettiva realizzazione dell’autonomia scolastica; l’espansione del programma di alternanza scuola-lavoro; un maggior investimento sulla lingua inglese e su materie come il diritto, l’economia, la musica, l’educazione alla cittadinanza e il pensiero computazionale; una progressiva digitalizzazione dell’insegnamento. Invece, ad oggi, appare ancora poco chiaro il pensiero del governo sugli istituti paritari, se verranno introdotti istituti come il buono scuola o i voucher che hanno dato ottimi risultati nelle regini che li hanno adottati.

Le reazioni alle parole del premier sono state sostanzialmente piuttosto negative, si va da una bocciatura da parte dei sindacati ad un atteggiamento più prudente, anche se spesso scettico, da parte delle tante associazioni presenti nel mondo della scuola. Come detto, e da più parti rilevato, un vero giudizio non è possibile darlo perché, come per tanti altri provvedimenti, siamo ancora agli slogan e quindi è giusto attendere i provvedimenti veri e propri, però alcune cose il premier le ha messe in luce, soprattutto sull’impostazione della riforma. La sensazione, confermata da alcune parole del premier, è che il centro di tutta la riforma non siano gli studenti, ma gli insegnanti. Il problema dei precari nella scuola è gravissimo, altrettanto gravi sono le conseguenze causate dalle barriere che i giovani che desiderano intraprendere la professione di insegnante trovano davanti a loro, così come per una “Buona Scuola” è fondamentale il grado di preparazione e l’impegno quotidiano profuso dagli insegnanti e che venga loro riconosciuto il compito fondamentale che svolgono. Però il centro della riforma della scuola non possono essere gli insegnanti, ma devono essere gli studenti.

Il premier ha assolutamente ragione quando afferma che questa non è una riforma come le altre, ma è una riforma che ci dice cosa “vogliamo per i prossimi 30 anni”, ma proprio per questo occorre guardare e partire dagli studenti. Una “Buona Scuola” non può avere come scopo quello di risolvere i problemi degli insegnanti o degli edifici scolastici, ma quello di aiutare i bambini, i ragazzi, i giovani adulti a scoprire se stessi e a mettere a frutto i loro talenti. Si tratta di guardare le persone non secondo un progetto, ma secondo quello che loro stessi sono e che desiderano. L’alternativa è quella di ridurre la scuola ad una fucina di esseri umani che esistono in funzione di qualcosa, secondo una visione prettamente utilitaristica. Paradigmatico di questo è il rapporto tra scuola e lavoro. È certamente meritorio che la riforma voglia estendere le ore di alternanza scuola-lavoro durante gli ultimi tre anni di superiori, che voglia permettere (in modo facoltativo) anche agli studenti liceali di fare degli stage e che preveda la possibilità di fare degli stage anche al di fuori dell’orario scolastico. Senza un maggior coinvolgimento delle realtà produttive e delle risorse dei territori, perché il grande rischio è che l’alternanza scuola-lavoro si riduca a far “sentir l’odore” del lavoro agli studenti, senza però incidere nell’apprendimento. L’alternanza scuola-lavoro parte dal principio che si può imparare non solo attraverso un insegnamento formale, ma anche attraverso “il fare”. È questo il cuore del grande progetto sull’apprendistato ad ogni livello, che coinvolge studenti delle superiori o dottorandi. Se si perde questo aspetto l’alternanza scuola-lavoro rischia di essere un palliativo, un modo per pulirsi le coscienze. Oppure, cosa ben peggiore, che sia il mercato a dire chi siamo, a indirizzare le nostre scelte. Per questo occorre investire su un’alleanza educativa capace di mettere insieme tutti i soggetti coinvolti a partire dagli studenti e dalle loro famiglie, fino alle realtà produttive e alle risorse del territorio.

Una scuola moderna non è quella che usa i tablet o insegna le teorie del gender e l’educazione sessuale (prevaricando il ruolo delle famiglie), ma è quella che valorizza e responsabilizza tutte le forze della comunità affinché i bambini e i ragazzi non siano soli in quell’affascinante cammino che è la scoperta di se stessi e del mondo.

Giovanni GUT
 




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