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06/05/2022
Sempre più necessaria un'Europa unita
Chi abbia presente la storia della prima parte della nuova Europa fa sempre più fatica a riconoscere le sue linee caratteristiche nell’attuale gestione.

La dichiarazione di Robert Schuman, rilasciata dal ministro degli Esteri francese il 9 maggio 1950, che proponeva la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (la CECA, nata poi il 18 aprile dell’anno successivo con il trattato firmato a Parigi), fu il primo atto concreto della nascita di un’Unione europea. Può forse oggi apparire un passo di carattere troppo burocratico, e probabilmente anche allora il suo senso non raggiunse a pieno la maggioranza dei cittadini i cui Paesi (Italia, Germania, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo) avrebbero aderito all’accordo, ma ebbe invece in quel contesto storico una grande importanza anche ideale; e neppure è un caso che tra i primi aderenti vi fossero, oltre ai due maggiori responsabili del conflitto (Germania e Italia), i Paesi che erano stati il principale teatro della guerra. La scommessa di R.Schuman, sulla sollecitazione di J. Monnet, era veramente un salto nell’utopia: trasformare gli europei, da nazionalisti in antitesi reciproca, in europeisti in cooperazione. Un salto di qualità, di livello, che sarebbe stato possibile solo nella ri–comprensione della propria storia autentica, ma che si sarebbe attuato solo attraverso la dimostrazione – la riprova toccata con mano – che “fare così” premiava. Di qui la scelta dello strumento, non semplicemente economica, ma di cooperazione, di lavoro, di scoperta della propria identità comune, pure (o proprio) nella ricchissima molteplicità. Quella diversità (nella unità) che caratterizza l’Europa. Chi abbia presente la storia della prima parte della nuova Europa fa sempre più fatica a riconoscere le sue linee caratteristiche nell’attuale gestione; se vogliamo, o meglio, nell’attuale spirito.

I fondatori hanno agito credendo, contro ogni ragione contingente, che il “miracolo” avrebbe potuto prodursi, e il miracolo è venuto. Erano consapevoli che “non si mette vino nuovo in otri vecchi”, e che c’era molto da fare. Aggiungerei: sapevano per esperienza che la storia è oscillante fra momenti felici ed altri, di decisa caduta, e che si deve quindi, generazione dopo generazione, ricominciare da capo. Ebbe una certa eco l’invocazione (fra le tante) di Giovanni Paolo II agli europei: “Europa, ritrova te stessa”; auspicio e affermazione insieme di un papa filosofo e teologo, forse più lodato che letto. Ricordo ancora l’entusiasmo di un uomo come G. Bersani, che di queste cose ben se ne intendeva. Un’Europa capace di chiudere con le ideologie del XX secolo, di ritrovare il senso della propria storia, di apprezzare la propria ricchezza culturale e spirituale, di proiettarsi generosamente al futuro, di mettere in comune le proprie risorse, puntando a “respirare con due polmoni” (e non si riferiva certo all’apporto economico e finanziario dell’Est). Che cosa è rimasto di questo invito? Che cosa è rimasto della “intesa cordiale” che Schuman, con De Gasperi ed Adenauer, poneva come essenziale, fra la Francia e la Germania, tante volte nemiche, ora in “fraterna” collaborazione? Di azioni poste, nel loro accordo, a guida e garanzia degli altri paesi comunitari? È sempre più ricorrente la affermazione che l’Unione deve essere una “grande potenza”, per “salvarsi” fra le altre grandi potenze in crescita – soprattutto quelle “emergenti”, come la Cina Popolare; grande in termini economici, finanziari, magari anche militari. La stampa si è sbizzarrita, nella recente crisi ucraina, a presentare foto, diagrammi, calcoli relativi alle forze militari del sistema europeo e di quello russo.

Lo stesso, periodicamente, avviene per l’estremo Oriente. Da non dimenticare il principio di sussidiarietà, che ha appena compiuto trent'anni, nei settori che non sono di sua esclusiva competenza; l'Unione interviene laddove l'azione dei singoli Stati non è sufficiente al raggiungimento dell'obiettivo. Un principio che si ritrova all’interno di un Paese nel rapporto tra Stato e istituzioni locali. Interessante è ricordare i fondamenti teorici di tale principio per capirne le potenzialità al di là di modalità e margini di applicazione e di possibili strumentalizzazioni ideologiche; per farlo basare su un nuovo modo di intendere i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione nella prospettiva di un rapporto di parità delle parti o comunque di un maggiore coinvolgimento dei cittadini; dove la prospettiva essenziale per dare un vero significato alla formula del principio è quella di riscoprirne, al di là di antichi presupposti filosofici, le radici della formulazione nei tempi moderni. Con Schuman si rinforzano le radici nel bene comune già identificate con la Carta del lavoro (del 1927) e la Lettera Enciclica Quadragesimo anno (del 1931) quasi a voler rivendicare una sorta di matrice fascista al principio della sussidiarietà, dimenticando però - avverte - la Enciclica Rerum Novarum, con tutta la riflessione successiva. Significherebbe ignorare - aggiunge - la figura di Antonio Rosmini, non considerare o sottovalutare Luigi Sturzo, non tenere conto, insomma, di tutto uno sforzo culturale, anche grazie all’influenza di pensatori stranieri come Maritain, teso a stabilire un dialogo, un ponte tra mondo cattolico, pur nella sua straordinaria varietà sul piano della visione sociale e politica, e il mondo moderno.

Promotore di un modello di alleanza condiviso, ha favorito il buon funzionamento e sostegno a una alleanza per la realizzazione di una comunità allargata, in primis alla sicurezza e anche alla consapevolezza condivisa non in un passato comune, ma in un futuro comune dove la libertà di ciascuna nazione è la sola garanzia della libertà di tutti. La finalità del suo pensiero, infine, si è attuata valorizzando la persona ponendola al centro della dimensione sociale e politica come soggetto responsabile e creativo, come singolo e nelle formazioni sociali in cui si trova ad operare. Numerosi sono stati gli interventi fino all’ultima stesura del Pnrr che hanno costituito un salto di qualità dell’Unione, un cambiamento di natura che ne garantisce la sopravvivenza e può avere grandi sviluppi oltre che ad essere la sede che può risolvere i nostri problemi: quelli che da soli non saremmo in grado di risolvere curando il modo di procedere, quello delle acquisizioni puntuali e progressive. Del resto, aveva avvertito fin dall’inizio Robert Schuman, era chiaro che l’Unione Europea si doveva formare per gradi. Le occasioni e le possibilità non mancano, proprio per le stesse ragioni che rendono necessaria l’Europa unita. Ciò porterà, nel giro di pochi anni, a un risultato organico, con tutte le grandi implicazioni utili all’intera umanità evocate dal Messaggio di speranza, pace e unità di papa Francesco al Parlamento europeo del 23 novembre 2014.

Gilberto Minghetti




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