Anche queste elezioni dimostrano che in un Italia, sempre alla ricerca di stabilità politica, tutte le occasioni elettorali, anche amministrative, assumono un significato politico generale, evidenziando quelle tendenze che preannunciano cambiamenti e irrequietezze. I sei centri capoluogo andati alle urne per rinnovare i sindaci, oltre a questa incombenza istituzionale, erano chiamati a chiarire alcune questioni di fondo: la “tenuta” elettorale del M5 Stelle dopo l’avvento di Conte, rammentando che proprio la conquista di due grandi città come Torino e Roma, nel 2016, preparò l’esplosione dei consensi alle politiche del 2018, se il Pd fosse o meno sulla via del recupero di ruolo politico ed anche se il centro-destra, a trazione Lega e Fratelli d’Italia, abbia le carte in regola per poter ambire alla guida del Paese. Le risposte sono arrivate. Il movimento fondato da Grillo ha confermato un declino irreversibile, utile solo a rimpinguare le otri di consensi della sinistra passando da un ”antisistema” fasullo ad un “filo establishment”, sostanzialmente opportunistico; il Pd va costruendo la sua prospettiva alla guida di un “campo largo” che Letta definisce “nuovo Ulivo” al quale, come sempre, occhieggia la borghesia imprenditoriale, sempre in cerca dei benefici di un “capitalismo di relazione”; ed, infine, un centro-destra capace di ricevere ampi consensi per il disagio diffuso, appare meno idoneo, salvo nelle Regioni, ad esercitare la difficile arte della guida del governo nelle grandi città, come probabile esempio di una altrettanta inidoneità alla guida del Paese. In particolare la sconfitta di Roma appare particolarmente emblematica. La sottovalutazione dell’importanza del voto nella Capitale da parte della Meloni ha trascinato il centro-destra ad una pesante sconfitta, offrendo, di fatto, al Pd, con la conquista del Campidoglio, la possibilità di assicurarsi le chiavi di Palazzo Chigi.
Il centro-destra ha giocato male anche una possibilità che in sé appariva interessante, quella cioè di candidature non politiche a sindaco, presentando personalità tratte dalla società civile. A questo proposito occorre ribadire che nelle elezioni locali questi esponenti devono rappresentare la comunità cittadina con un forte radicamento e con esperienze che dimostrino una credibilità amministrativa, altrimenti, pur essendo personaggi dignitosi e stimabili per la loro professionalità, si rivelano incapaci di una larga rappresentanza. E così è avvenuto. Preoccupano comunque due elementi che si sono manifestati ampiamente in queste elezioni: l’astensionismo e un clima avvelenato per gli interventi della magistratura e, soprattutto per gli episodi di violenza. Il primo manifesta una crisi della rappresentanza che oggettivamente penalizza i perdenti, ma indebolisce i vincitori (come ha scritto Sabino Cassese: ”hanno perso tutti”) anche perché il non voto è più diffuso nei quartieri e nei ceti più disagiati. Il secondo ed in particolare l’assalto alla CGIL che qualcuno, non senza ragione anche se un po’ forzatamente, ha paragonato alle violenze degli anni ’20, tuttavia, oltre a intollerabili squadrismi, ci fa pensare anche a debolezze dello Stato che pur non paragonabili a quelle di allora che aprirono la strada alla presa del potere del fascismo, richiederebbero tuttavia più adeguatezza da parte del Ministero degli Interni.
Comunque, per un bilancio di prospettiva, si può rilevare che il successo elettorale conseguito in queste competizioni a base maggioritaria e bipolare sono come il vento che gonfia le vele di un Pd neoulivista e, di conseguenza, probabilmente, portato a ratificare sistemi elettorali di tipo maggioritario o mantenendo le regole attuali. All’interno del Pd “cova” un dibattito circa la legge elettorale che coinvolge complessivamente tutto il quadro politico poiché, qualora si spegnesse la possibilità di una riforma elettorale in senso proporzionale, ciò comporterebbe maggiori difficoltà per realizzare la ricorrente proposta della creazione di un centro “moderato” forte e autonomo, come contromisura di un anomalo e sbilanciato rapporto tra le componenti nello schieramento di centro-destra. Infatti all’indomani dell’apertura dei seggi e di fronte al risultato negativo per il centro-destra, pur timidamente, si è aperto un dibattito sui limiti di una linea politica che presenta incertezze e, soprattutto, che appare confinata e ristretta e che un’abile e strumentale propaganda ha accostato a posizioni estremiste, allontanandolo da quei settori sociali interessati soprattutto alla ripresa economica. La questione che si apre, complessivamente per il Paese, è, quindi, di indirizzo politico, di contenuti e di modalità per rappresentare i ceti produttivi del Paese, le difficoltà della classe media e le grandi preoccupazioni dei settori poveri, con un doveroso cammino da percorrere per il vero deal dell’Italia, cioè il lavoro e lo sviluppo nel quadro europeo. Sotto questi aspetti tutte le forze politiche mostrano difficoltà di elaborare progetti di governo. Le fallimentari esperienze dei governi di questa legislatura, prima dell’arrivo di Draghi, lo hanno ampiamente dimostrato.
A questo vuoto di rappresentanza sta sopperendo l’esperienza, la capacità e la autorevolezza di Mario Daghi. Per la verità, quindi, la realtà della condizione politica uscita dal voto del 17-18 ottobre richiede di utilizzare questa fase - nella prospettiva, auspicabile, ma difficile nell’immediato, della costruzione di un polo di centro, che, se debole, rischierebbe di cadere nelle strategie di altri, cioè della sinistra - per compiere ogni sforzo di elaborazione politico culturale da parte delle forze che si ispirano al liberal-riformismo e al popolarismo per passare dal tempo del disagio e della protesta a quello della ripresa e della governabilità. Sulla necessità di questo spazio politico centrale, non piegato ad egemonie degli altri “poli”, sono chiamati tutti, a partire dalle componenti prevalenti del centro-destra come hanno dimostrato i risultati di queste elezioni, finite in un impasse, cioè in una strada senza uscita. Il Paese ha bisogno di forze politiche che oltre a rifiutare decisamente violenze ed estremismi, ci mancherebbe, rinuncino ad avvalersi degli interventi di una magistratura, obbiettivamente in crisi o di strumentali schieramenti “anti”, per preparare il Paese, con la stabilità e un ritrovato interesse generale nazionale ed europeo, a sfide di grande portata: dal piano interno del rientro dopo i benefici del PNRR a quello internazionale che potrebbe presentare scenari non usuali a seguito della politica di “contenimento” della Cina sulla quale è avviata anche la presidenza Biden.
Pietro Giubilo