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11/10/2021
Le elezioni, la rappresentanza e le periferie di Roma
Il nuovo paradigma elettorale della periferia romana, che rende incerto l’esito del ballottaggio, mostra ancora una volta quanto sia decisiva e importante la questione della rappresentanza.

Il problema più evidente che si è imposto all’indomani di questa tornata amministrativa è la ridotta partecipazione al voto. A quasi una settimana dalla prima giornata delle votazioni, la questione è comparsa ancora sul Corriere della Sera in un fondo di Antonio Polito (“Il non voto non è solo protesta”), con una interpretazione intelligente anche se non del tutto convincente e cioè che questo “non voto” possa essere stato dettato dalla voglia di non far “saltare il banco”, essendo venuto meno il “tempo della protesta”, rafforzando quindi la governabilità di Mario Draghi. Ora è plausibile che, dopo la tempesta del Covid e l’affannoso incedere dei governi Conte, gli italiani colgano la più elevata capacità di governo del nuovo inquilino di Palazzo Chigi che corrisponde, come un guanto alla mano, all’ aspettativa di un traghettatore che li possa condurre fuori da questo tempo difficile. Di conseguenza, il non andare a votare può rappresentare un atto di fiducia o, meglio, di affidamento, come la firma di una cambiale in bianco. E poiché il Paese ha avuto per troppo tempo la netta sensazione di camminare sull’orlo del baratro, non sufficientemente sorretto dall’avvocato di Volturara Appula, ha accolto la nuova guida, perfino rinunciando ad esprimersi in cabina elettorale, senza avvalersi cioè del suo più importante potere di scelta democratica. Orbene, proprio questo ragionamento, ci conduce ad una valutazione che, però, non possiamo accogliere con giubilo e cioè che la rinuncia alla rappresentanza, tale è il non voto, abbia un senso e, soprattutto, rappresenti un modo di assestamento del sistema politico e, quindi un passo positivo per la democrazia.

C’è in questa infelice interpretazione positiva dell’astensione una sovrapposizione e confusione di due piani del sistema democratico parlamentare, quello della rappresentanza e quello della governabilità. Con la strisciante tentazione , cioè, di ritenere la prima sacrificabile in funzione del primato di quest’ultima. Nel nostro ordinamento politico, così come scolpito nella Costituzione, invece, il prius sul quale ruota tutto il carattere della democrazia italiana è quello della rappresentanza, cioè del valore primario, con il voto, della scelta degli elettori e di una designazione, attraverso di essa, per avere voce nelle istituzioni legislative e di governo. Il tema fu talmente decisivo per cui il sistema della rappresentanza e dei partiti che ne erano il tramite, venne denominato la “Costituzione materiale” della Repubblica. La governabilità è cosa successiva rispetto alla rappresentanza e, come è stato per alcuni decenni, salvo incrinarsi per l’assalto al ruolo dei partiti e il conseguente scadimento del personale politico, la qualità della governabilità era espressione funzionale del livello della rappresentanza. Ora il venir meno della voglia di scegliere la rappresentanza politica, a motivo di una sufficiente governabilità, potrebbe essere l’anticamera di un paternalismo e di una deresponsabilizzazione che apra le porte e ci farebbe transitare da una democrazia senza partiti ad una democrazia senza popolo, cioè ad una tecnocrazia, variante moderna dei sistemi dittatoriali. Non a caso e sintomo da non trascurare, parallelamente a ciò che accade o non accade in cabina elettorale, assistiamo, a proposito di aspetti riferibili al controllo sociale e sanitario, all’emergere di una questione di libertà, sollevata da autorevoli intellettuali, assolutamente alieni da tentazioni sovraniste. Riguardo al rapporto tra partecipazione elettorale e rappresentanza, calza perfettamente ciò che è emerso anche dalle consultazioni romane.

Si è reso evidente un elemento significativo e cioè che nelle periferie della Capitale vi è stata minore affluenza al voto rispetto ai quartieri centrali. Emblematico il dato che ha visto la punta più bassa a Tor Bella Monaca, emblema di un profondo disagio urbanistico, con i suoi ecomostri residenziali edificati nei primi anni ’80 dal sindaco comunista Luigi Petroselli. Si tratta della ulteriore conferma di una condizione che ha sovvertito quanto accadeva fino ai primi anni ’90 e cioè che la minor affluenza avveniva nei meno disagiati quartieri centrali. Cosa è accaduto? Nelle zone distanti dal centro, ove erano sorti, spontaneamente, interi quartieri, nonostante importanti interventi avviati dalle giunte a guida Dc, era andata maturando negli anni ’70 una forte spinta del Pci, attraverso comitati di quartiere e “lotte” per il risanamenti delle borgate. Fu su tale “spinta” che il Pci conquistò nel 1976 il Campidoglio, mantenendone la guida per circa 10 anni . Dopo la breve stagione del pentapartito, il ritorno delle sinistre alla guida della Città, per circa venti anni, negli anni ’90 ed oltre, non realizzò il vero risanamento, con l’attuazione dei piani particolareggiati e la riqualificazione di tali zone, tanto è vero che nel 2008 fu proprio il voto delle periferie a portare Gianni Alemanno nel Palazzo Senatorio, sconfiggendo Francesco Rutelli. Da allora il voto delle periferie, nel loro complesso, anche di quelle consolidate – a parte la fallimentare parentesi Marino - si è allontanato, potremmo dire definitivamente, dalle sinistre, fino a incoronare nel 2016 Virginia Raggi. Il 3 e 4 ottobre la minore affluenza ai seggi, comunque, ha visto prevalere, in quasi tutti i municipi periferici, il candidato del centrodestra Enrico Michetti, mentre ha, in buona parte, “tenuto” il consenso alla sindaca uscente e lo stesso Carlo Calenda ha riportato risultati interessanti. Deludente, invece, il voto ottenuto da Roberto Gualtieri.

In sostanza, si è confermato che il “tradimento” della sinistra romana ha condotto al non voto proprio quei cittadini che a Roma hanno una maggiore necessità di rappresentanza amministrativa e politica, che vivono il più grave disagio per la carenza dei servizi: dalla raccolta dei rifiuti alla mobilità, distanti dalla Città, senza forti punti di aggregazione, carenti di sicurezza e di strutture culturali e sportive. Questo nuovo paradigma elettorale della periferia romana (forte astensionismo e voto al centrodestra) che rende incerto l’esito del ballottaggio, mostra ancora una volta quanto sia decisiva e importante la questione della rappresentanza. Soprattutto quanto, con la partecipazione al voto, essa sia necessaria proprio laddove occorrono risposte alle aspettative di chi ha più bisogno di riequilibrare una condizione, nel caso, di marginalità urbana e di sofferenza sociale. Non votare è sempre una sconfitta per la democrazia, cercarne giustificazioni o apprezzamenti è un pericoloso segno di rassegnazione.

Pietro Giubilo




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