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20/10/2020
C’è da ricostruire l’Europa
dobbiamo ricostruirla dalle sue fondamenta

L'UE va ricostruita dalle sue fondamenta, come se fosse uscita da una guerra. L'Europa che dobbiamo proporre è un'Europa democratica, federale, pacifica, fondata sulla partecipazione della cittadinanza attiva, inclusiva e creativa.
Cari lettori l'Europa sta marciando verso la sua dissoluzione. A spingere verso il baratro l'Unione e, insieme a lei la maggioranza dei Paesi membri, sono i falsi europeisti e una cultura formalmente "liberista", ma in realtà ragionieristica e statalista che la governano nell'interesse di grandi banche di affari, di assicurazioni, di fondi di investimento, di grandi società multinazionali, di speculatori privati che ormai controllano la metà della ricchezza dell'intero pianeta.

L'arma che l'Unione europea avrebbe dovuto usare e non ha messo in campo non è solo una chiara linea di condotta diplomatica che non esiste ma è soprattutto un sostegno sostanziale alle forze democratiche in campo, nel nome di una solidarietà capace di attraversare i confini. L’UE odierna in nome di una contabilità meschina e atroce, massacra il suo stesso popolo, come ha fatto e continua a fare in Grecia; e come sta facendo con Italia, Spagna e Portogallo.

Quale trattamento? L'"austerity": che in Italia significa, già oggi, pareggio di bilancio. Ma già dal 2015 "austerity" è voluto dire anche cominciare a restituire alle banche il mostruoso debito pubblico italiano, oltre 2100 miliardi, che si è andato accumulando esclusivamente sommando anno dopo anno gli interessi che i creditori hanno maturato prestando denaro allo Stato. Questo significa estrarre dalle tasche di chi paga le tasse quasi cento miliardi all'anno per pagare gli interessi sul debito.

Ma dove sono gli economisti? Quelli che attaccati al mito reazionario della crescita del PIL come unica via da seguire per "sanare" i bilanci hanno finora provato a spiegare come è possibile, non dico "rilanciare la crescita", ma tenere in piedi il tessuto produttivo e sociale di un Paese, con una simile pietra al collo. E magari, quegli stessi economisti si chiedono come mai la diseguaglianza sociale continua ad aumentare. E ci spiegano che è colpa di lavoratori, disoccupati, giovani e pensionati che continuano a "vivere al di sopra delle loro possibilità".

Ma la cosa più paurosa è la risposta grottesca a questo modo di procedere, ma anche la più "popolare", che per questo dà la misura del degrado culturale in cui l'ideologia liberista ha fatto precipitare l'opinione pubblica è "l'uscita dall'euro"; il recupero della sovranità monetaria per riprendere, ciascuno per conto proprio, la via della "crescita". La parola magica è "svalutazione": una misura che l'euro non consente e la BCE non persegue. Svalutando una moneta tornata nazionale, si dice, riprenderanno le esportazioni e con esse gli investimenti, l'occupazione, i salari e il PIL, così da ripagare anche interessi e debito. Ma se tutti i Paesi che escono dall'euro competono a chi svaluta di più, le esportazioni non aumenteranno e a subirne le conseguenze sarà il potere di acquisto dei salari. D'altronde, le imprese italiane che si sono attrezzate per "competere" sui mercati globali hanno continuato a esportare nonostante l'euro. Quelle soccombenti hanno ormai perso la gara, non solo in termini di salari e di tutela di ambiente e salute; ma soprattutto in tecnologie: con i fondi per la ricerca azzerati o finiti nelle tasche dei baroni universitari è difficile reggere anche nei confronti delle economie emergenti, che la ricerca la finanziano.

Ma la pretesa più ridicola dei fautori dell'uscita dall'euro è l'idea che in questo modo la Banca centrale torni a essere "prestatore di ultima istanza": cioè torni a finanziare una spesa pubblica in deficit, invece di farla finanziare da banche nazionali e internazionali, che poi impongono la loro volontà al governo. Dimenticano, costoro, che il primo Paese a negare alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza è stato proprio il nostro Paese. E non per sbaglio, bensì per creare un vincolo insormontabile all'aumento dei salari e della spesa per il welfare. Se ora, tornando alla lira, tocca poi fare anche una battaglia in Italia per annullare quel "divorzio", tanto vale sferrare la battaglia direttamente in Europa, dove potremo trovare al nostro fianco, se non i governi dei Paesi dell'Europa del Sud certamente le forze decise a incalzarli su questo terreno. E non solo nel futuro Parlamento europeo, ma, cosa ben più importante, nelle lotte e nelle iniziative sociali e culturali contro l'austerity e le sue conseguenze.

Cari amici l'Unione Europea va dunque ricostruita dalle sue fondamenta, che sono quelle della Carta di Ventotene, come se fosse uscita, o dovesse uscire, da una guerra. Una guerra combattuta questa volta non con gli eserciti, le bombe e i carri armati, ma con le banche, il debito e gli spread.

Dobbiamo proporre a coloro cui chiediamo di ascoltarci, per definirne i connotati insieme a loro e con loro costruire e assemblare le forze per imporla, un'Europa, federale, pacifica, fondata sulla partecipazione della cittadinanza attiva, orientata alla sostenibilità ambientale, inclusiva che non trascura gli ultimi per privilegiare i penultimi, perché sa che in questo modo non si fa che dividerci e lasciare il campo libero alle forze dell'oppressione e dello sfruttamento, creativa perché il lavoro libero, e liberamente scelto, è il solo a produrre innovazione, benessere e valorizzazione di quanto di meglio ciascuno può volere per sé e può dare agli altri!

Luca Cappelli
 




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