La Commissione Europea, facendo seguito ai numerosi proclami, lo scorso mercoledì ha presentato la sua proposta di sostegno dell’economia europea in risposta al Covid Shock. Cerchiamo di analizzare il pacchetto di intervento in base alle informazioni disponibili. Sotto certi aspetti è una novità inattesa. Per la prima volta il bilancio dell’Unione Europea si allarga in debito per far fronte agli effetti negativi del Covid-19. Nello specifico entro il 2022 l’Unione Europea potrà emettere titoli del debito pubblico per un valore complessivo di 750 miliardi, fornendo come collaterale (garanzia) il bilancio dell’Unione, che per il periodo 2021-2027 si dilaterà dagli attuali 161 miliardi annuali (1127 in sette anni) ad una cifra nettamente superiore: visto che dovrà tener conto del rimborso del capitale e del pagamento degli interessi che matureranno negli anni sul debito emesso. Secondo calcoli effettuati ‘back of the envelope’ questa cifra non dovrebbe discostarsi dai 1850 miliardi di euro (in sette anni). Pertanto la Commissione Europea ha deciso di rilanciare sul Recovery Fund aggiungendo 250 mld di euro alla proposta franco-tedesca dibattuta nei giorni scorsi.
Il punto da chiarire ora riguarda le procedure che saranno seguite per ripagare questo ingente debito ed in questo caso la faccenda diviene meno chiara. Mentre la novità sta nel fatto che lo farà utilizzando il bilancio dell’Unione, alla stregua di qualsiasi altro Stato sovrano: quello che ancora resta oscuro è con quali risorse il bilancio dell’Unione Europea si dilaterà fino alla cifra ricordata in precedenza. Il Bilancio Europeo (BE) ha una sua propria contabilità che ha come entrate i conferimenti degli Stati membri ed i dazi doganali che vengono imposti alle importazioni provenienti dai paesi al di fuori dell’Unione. Pertanto ogni singolo Stato trasferisce al BE una quota dell’IVA incassata, i dazi riscossi ed una quota del Reddito Nazionale Lordo. L’onere per l’Italia è stato in questi anni di 13.75 mld di euro annui. Il bilancio è pluriennale (7 anni) di conseguenza 13.75 mld per 7 = 96.3 mld di euro. Nel caso venisse confermato l’intervento per il nostro Paese di 153 mld avremo 153 – 96.3 = 56.7 mld di euro netti. Le strade da seguire, come si discute da mesi, sono in buona sostanza due: 1) l’aumento dei conferimenti dei singoli Stati al bilancio dell’Unione Europea, oppure 2) introducendo nuove risorse proprie dell’UE. Nel caso si scegliesse la prima strada l’intervento avrebbe un carattere redistributivo: per cui i contribuenti di alcuni Stati dell’Unione Europea si accollerebbero gli oneri della la spesa pubblica che pioverebbe su altri Stati. Mentre percorrendo la seconda, l’intervento assumerebbe i contorni di una misura di sostegno “federale”, ma in questo caso quello che resta oscuro è il meccanismo di finanziamento. C’è in proposito chi parla di nuove tasse ma per ora non è dato sapere di che natura saranno e chi avrà il compito di raccoglierle.
L’altra annosa questione è quella che riguarda le procedure che verranno seguite per spendere i 750 mld di euro rastrellati sul mercato dei capitali. In proposito i due terzi (500 mld) dovrebbero consistere in contributi diretti agli Stati membri mentre il restante un terzo dovrebbe essere utilizzato per prestiti agli stessi Stati membri con scadenza lontana nel tempo (azzardiamo 20 o 30 anni almeno). Dove questi ultimi saranno chiamati a rimborsarli (alla scadenza) attingendo le risorse necessarie all’interno del proprio bilancio dello Stato. A questo punto la domanda che ci si pone all’interno degli Stati è quanti miliardi di euro arriveranno come contributi diretti e quanti sotto forma di prestiti.
Nel caso dell’Italia siccome le stime sono ballerine non le riportiamo. Per evitare poi che questi prestiti e contributi vengano utilizzati per qualsivoglia provvedimento per averli bisognerà sottostare a delle condizionalità. A nostro avviso sacrosante, visto che in Italia già qualche Ministro ed il coordinatore della Task Force si sono lanciati in promesse populiste: utilizzare una parte delle risorse per ‘abbassare le tasse’ e per investirle sui giovani (che si ritroveranno negli anni a venire a dover rimborsare la parte di Recovery Fund finanziata con debito). Un ritornello che nelle nostre latitudini è sempre in voga. Le condizionalità per fortuna ci saranno e gli Stati potranno spendere le risorse ottenute solo su capitoli di spesa indicati nelle usuali Raccomandazioni che ogni anno l’Unione Europea si prende la briga di fare agli Stati membri, nell’ambito del “Semestre Europeo”. In altre parole, la Commissione Europea con la condizionalità indica i settori sui quali bisognerebbe intervenire per migliorare la struttura economica dei singoli Stati. Non dimenticando la fattibilità della proposta e tenendo ben presente qual è la differenza tra il Recovery Fund, il MES che esiste già dal 2012 ed il SURE anch’esso di nuova istituzione.
Qualcuno sulle ali dell’entusiasmo, pensando di avere già a disposizione le risorse, ha dimenticato che il Recovery Fund è per ora solo una proposta della Commissione su interessamento dell’asse franco-tedesco, e che deve essere approvata dal Parlamento e soprattutto dal Consiglio Europeo. E qui casca l’asino visto che per essere approvata ha bisogno di un voto unanime da parte di tutti i 27 Stati che formano l’Unione Europea e che già ci sono quattro Paesi che si sono dichiarati contrari al Recovery Fund. Finora in attesa di questa sorta di Piano Marshall moderno i Paesi europei hanno già due strumenti che potrebbero utilizzare, uno di vecchia istituzione: il MES, e l’altro di nuova fattura: il SURE. Questi due meccanismi già in essere emettono debito comune avendo come collaterale risorse finanziarie versate collettivamente dagli Stati membri (il capitale versato), e prestano le somme ricavate agli Stati stessi, che sono chiamati a restituirle lontano nel tempo. Mentre il Recovery Fund lanciato dalla Commissione Europea lo scorso mercoledì emette debito comune fornendo come garanzia non il capitale versato ma il bilancio comunitario che dovrà essere ampliato alla bisogna. Altra differenza che va a favore del Recovery Fund è che i due terzi delle risorse erogate (500 mld di euro) non sono prestiti da restituire ma contributi diretti (grant) assegnati agli Stati membri, che li spendono seguendo alla lettera le raccomandazioni dell’UE nel semestre europeo.
Tirando le somme, mercoledì scorso il processo di integrazione europea col lancio del Recovery Fund ha compiuto un balzo in avanti. Ma bisogna restare coi piedi per terra visto che il percorso da compiere per raggiungere questo nuovo traguardo è ancora lungo ed accidentato.
Marco Boleo