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05/08/2019
Pil a crescita zero
Nel nostro Paese il dato dei partecipanti alla produzione รจ sconfortante

Questa volta poco cambia nell’analisi dei dati dell’economia italiana diffusi dall’Istat, sia per gli ottimisti che per i pessimisti: visto che la crescita del Pil nel secondo trimestre 2019 e su base annua è zero e non zero virgola qualcosa da interpretare come eravamo abituati da tempo. Un dato va ribadito che non ha colto impreparati coloro che avevano guardato ai dati economici con la dovuta attenzione come avvenuto su questo blog. I segnali di un rallentamento, infatti, c’erano tutti e solo gli analisti prezzolati facevano finta di non coglierli sperando in un rimbalzo positivo derivante dagli stimoli interni (reddito di cittadinanza e quota 100) che però non era nelle corde dell’economia italiana e tanto è stato. Questa volta poi c’è anche poco da aggiungere, a nostro avviso, visto che zero sono anche la domanda interna (consumi + investimenti di famiglie imprese e Stato) e quella estera netta: esportazioni meno importazioni. E come se non bastasse ci si aspetta un valore nullo anche per la crescita prevista per l’intero 2019 se nei prossimi due trimestri la crescita dovesse essere zero. Un encefalogramma piatto che ha radici sia congiunturali che strutturali. In breve, infatti, possiamo dire che il ristagno dell'economia italiana è dovuto per la parte “congiunturale” oltre che al rallentamento delle economie estere con le quali commerciamo anche all'azione del governo gialloverde con la sua sequela di annunci e azioni incongruenti che si sono avvicendate nel corso del tempo. Mentre per la parte strutturale a quanto non si è fatto negli ultimi decenni per eliminare le palle al piede che condizionano negativamente la nostra crescita strutturale: la produttività stagnante ed il basso tasso di partecipazione delle persone attive al mercato del lavoro. La crescita del Pil come ricordato anche in un nostro precedente articolo dipende dalla produttività e dalla quantità di persone: uomini e donne che decidono di entrare nel mercato del lavoro.

Nel nostro paese il dato dei partecipanti alla produzione è sconfortante: con una popolazione di più di sessanta milioni di abitanti, infatti, solo poco più di un terzo lavora (ventitré milioni per la precisione) mentre quasi trentatré milioni sono gli inattivi (tredici milioni in età da lavoro + venti a riposo). Senza dimenticare che la maggior parte di quelli che lavorano lo fanno in imprese di dimensioni ridotte rispetto ad esempio a quelle d’oltralpe e tedesche e che hanno una produttività inferiore. Mentre quelle poche più grandi, le mosche bianche nel nostro sistema produttivo, hanno una produttività maggiore rispetto alle concorrenti. Pertanto il discrimine non è l’eventualità che l’imprese italiane sono divenute incapaci di fare sistema e che l’ingresso dell’euro ci ha tolto la possibilità di recuperare la competitività attraverso la svalutazione ma semplicemente il fatto che la dimensione media delle nostre imprese è rimasta immutata nel tempo. A nostro avviso invece ‘il deus ex machina’ che ci permetterebbe di uscire dall’impasse del ristagno, a livello strutturale e non ciclico,  non è la spesa pubblica finanziata in deficit o la riduzione delle tasse ma la crescita del monte salari: la parte del nostro Pil che viene distribuita al fattore lavoro e che finisce nelle tasche dei lavoratori. Siffatto meccanismo è facile da comprendere. La crescita dei salari alimentata dalla crescita della produttività, e favorita dall’accrescimento della dimensione delle imprese e dalla contrattazione a due livelli, attraverso il conseguente aumento delle entrate fiscali (più reddito = più tasse pagate) permetterebbe di rendere sostenibile sia la spesa pubblica generale che quella pensionistica. Ma finora guardando al contingente s’è deciso erroneamente d’ingrossare ancora di più la popolazione degli inattivi e di elargire sgravi fiscali alle imprese (si fa per dire) individuali.

Marco Boleo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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