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21/04/2017
Famiglia e lavoro
L'impegno civile dei cattolici nella difesa dei corpi intermedi รจ nell'interesse generale e nella tutela del bene comune
Benedetto XVI il 3 giugno del 2012 in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie a Bresso ebbe a dire: “Nel libro della Genesi, Dio affida alla coppia umana la sua creazione, perché la custodisca, la coltivi, la indirizzi secondo il suo progetto”; così continuando: “In queste indicazioni possiamo leggere il compito dell’uomo e della donna di collaborare con Dio per trasformate il mondo attraverso il lavoro, la scienza e la tecnica”. E più avanti: “Nelle moderne  concezioni economiche, prevale spesso una concezione utilitaristica del lavoro, della produzione e del mercato. Il progetto di Dio e la stessa esperienza mostrano però che non è la logica unilaterale dell’utile proprio  e del massimo profitto  quella che può concorrere  ad uno sviluppo armonico, al bene della famiglia e ad edificare  una società più giusta  perché porta con sé concorrenza esasperata, forti disuguaglianze, degrado dell’ambiente, corsa ai consumi, disagio delle famiglie”. Le parole del Pontefice intendevano sottolineare come la famiglia sia chiamata a continuare la Creazione e  come essa dia il senso  al lavoro anch’esso chiamato a realizzare il progetto di Dio.
 
Nel 2013, il Comitato  per il progetto culturale della CEI, dedicò al tema del lavoro un Rapporto-proposta nel quale indicava in esso, con riferimento alla concezione veterotestamentaria, il “compito affidato dal Creatore all’uomo  per coltivare e custodire la terra e completare  in questo modo l’opera della creazione” (Per il lavoro, rapporto proposta sulla situazione italiana, Editori Laterza, Bari 2013, pag. 5).
 
E’ evidente, da questi soli riferimenti, che famiglia e lavoro nella concezione cristiana sono  intimamente connessi con l’opera di Dio. L’umanesimo cristiano assume, quindi, un carattere teocentrico che lo distingue dalla concezioni ideologiche, siano esse liberiste o classiste, che, invece, a riguardo, ne vedono il risultato o di un  incontro tra le forze operanti nel mercato o come scontro di interessi, destinato ad essere assunto come elemento di una lotta politica.
 
Occorre partire da questo elemento per comprendere anche alcuni aspetti del modello economico dell’Italia quale si è affermato nel corso della sua storia. L’Italia, infatti, è la nazione  nella  quale la resistenza alla “rivoluzione laicista” è stata più forte che in altri paesi europei a partire dal rifiuto della  sollecitazione individualistica contenuta  nella Riforma luterana, per prodursi anche nella  conservazione del carattere fondamentale che assume la famiglia nella struttura sociale. L’economia italiana si è storicamente dimensionata nell’attività artigianale e della  piccola impresa, offrendo una qualità che si è affermata nel mondo. Tale caratteristica si è conservata più a lungo che negli altri paesi europei.
 
Questa condizione  viene osteggiata dalle più recenti concezioni economiche che invocano un paradigma unico anche di livello  internazionale, per il  quale deve prevalere la grande dimensione aziendale anche a carattere multinazionale  fondata prevalentemente sul fattore finanziario rispetto all’elemento personale.
 
Il modello italiano, invece, lungi dal rappresentare una arretratezza ha il fondamento sulla specificità e identità del Paese. “L’Italia - ha scritto  nel 2013 Giulio Sapelli  professore di storia  economica e di economia politica all’Università  Statale di  Milano - è il paese per eccellenza della piccolissima e  piccola  impresa perché è tra le società mondiali  in cui è più pervasivo  il predominio  di quella società naturale  che è la famiglia che esercita un ruolo dominante su tutte le altre forme  umane intermedie  in cui si articola e differenzia la società”.
 
L’analisi del professor Sapelli entra nel merito di questa affermazione: “L’uso del lavoro familiare, la limitata divisione  del lavoro nell’impresa, la produzione che si svolge  nelle  vicinanze del luogo di vita della famiglia, l’uso di tecnologie non necessariamente  semplici, ma comunque applicabili in base alla dotazione  di ‘capitale umano” della famiglia, sono fattori che si riscontrano sempre in queste piccole  imprese, che si sviluppano in condizioni che appaiono, a prima vista , controproducenti e avverse. Si pensi  al caso delle piccole imprese, per esempio, che si fanno strada  negli interstizi  dell’economia da grande impresa, utilizzando le sinergie  e le tradizioni  dell’economia di villaggio  dalle radici secolari” (G. Sapelli, Elogio della piccola impresa, il Mulino, Bologna 2013, pag. 67).
 
Queste imprese più che un carattere economicistico assumono la forma di una “comunità”, un insieme, cioè,   economico e sociale che ne rappresenta la forza e non il limite. L’elemento sul quale si costruisce, infatti,  è la persona, il rapporto di fiducia, la adattabilità propria del nucleo famigliare, cioè valori che ne consentono la permanenza anche a fronte della “aggressività del mercato.  Inoltre, la proprietà dei mezzi  di produzione e l’organizzazione alla quale è a capo, consentono all’imprenditore di esprimere le sue capacità personali e quelle dei suoi  “collaboratori”. Oltretutto tali realtà economiche sono anche il risultato di una condizione storica del nostro Paese e della sua organizzazione territoriale.
 
L’Italia è anche il Paese dei comuni, dei mille campanili e delle altrettante torri municipali, cioè di un pluralismo amministrativo, un patrimonio ineguagliabile  che è il frutto di una disseminazione culturale rispetto alle quali la rete delle attività familiari e delle piccole imprese ne rappresenta una linfa vitale essenziale per la loro permanenza.
Un altro elemento significativo  è rappresentato dal fatto che la tutela di tale tipologia di impresa fu introdotta  nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia, tutele che andrebbero estese in modo significativo anche a livello fiscale, contrastando un indirizzo normativo che, sulla base di una sollecitazione omologante  di origine europea,  non tiene conto di questa specificità italiana.
 
Del resto anche sotto il profilo  economico generale il peso delle micro imprese  quelle cioè con una media di 3,9 addetti per azienda - è rilevante. In Italia esse sono 4,2 milioni e rappresentano il 95 per cento del totale. La crisi non ha sostanzialmente  modificato questa caratteristica del sistema produttivo italiano: esse impiegano circa 7,8 milioni di addetti  , cioè il 47 per cento, contro il 29 nelle media europea. Anche sul fronte della produttività questa dimensione aziendale svolge un ruolo importante ad esempio nei settori dell’agroalimentare o della green economy, dove possiamo vantare alcune eccellenze ed ove, quindi, vi sono esempi di una capacità di export che ne favorisce anche la possibilità di  creare nuovi posti di lavoro.
 
Soprattutto questa realtà imprenditoriale costituisce un importante contributo all’economia reale. Nel tempo della ”globalizzazione finanziaria” che, quantomeno in Occidente, ha causato diseguaglianza e impoverimento dei ceti  medio bassi, il ruolo dell’economia produttiva va tutelato e difeso. A fronte di quella che Papa Francesco ha definito “l’economia che uccide” , nella quale il denaro “comanda” e non “serve”, l’economia delle piccole imprese costituisce un bastione contro le attività speculative ed una prospettiva valida, anche rispetto all’inserimento lavorativo dei giovani. Per anni ha costituito il principale ascensore sociale dell’Italia.
 
Parallelamente a questa realtà imprenditoriale è significativa anche quella delle Banche Popolari, delle Banche di Credito Cooperativo e le Casse Rurali che hanno collaborato al sostegno di queste attività attraverso il microcredito, spesso basato sulla fiducia personale e famigliare. In intere regioni italiane, pensiamo a quelle  fino a qualche decennio fa povere, come il Veneto e l’Abruzzo o alcune zone nelle province lombarde o del centro Italia,  la  crescita è potuta avvenire proprio  per  l’azione del credito di prossimità. Anche in questo caso, il territorio e la vita delle comunità sono state il punto di osservazione di una attività sostenuta da quell’”amore intelligente”, indicato da Papa Benedetto XVI, come ragione profonda di chi  non deve pensare solo a maneggiare soldi, ma aiutare le persone della propria comunità.
 
L’impegno civile dei cattolici nella difesa dei corpi intermedi è nell’interesse generale e nella tutela del  bene comune.  Rispetto alle spinte all’omologazione che provengono dal relativismo e dal pensiero unico, va affermata una biodiversità culturale, sociale, economica e civile. E’, per i cattolici, la ragione di sempre, ma che oggi appare quanto mai    essenziale ed urgente.
 
Pietro Giubilo
 
 

   
 
 

 




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