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17/04/2017
Migranti impiegati illegalmente in agricoltura
Fenomeno che riguarda anche la Calabria un tempo terra di transito

Sentiamo spesso parlare della Puglia del foggiano in particolare ma il sommerso coinvolge ahinoi anche altre regioni e forse in misura ancora più grande. Si tratta della Calabria.
Se un tempo questa regione veniva identificata come territorio di transito per i migranti oggi invece rappresenta un luogo dove trovano dimora in migliaia. Uomini che sbarcano sulle coste calabresi e che trovano riparo in capannoni fatiscenti. Accade nel reggino a San Ferdinando dove oltre 2.500 lavoratori migranti vivono in condizioni spaventose in quello che è diventato uno dei più grandi ghetti d'Italia. La denuncia arriva da più parti e in particolare dalle associazioni che presidiano quel territorio cercando di ridare dignità a questi uomini. Sono tutti braccianti agricoli impiegati nella Piana di Gioia Tauro. Circa cinquecento di loro vivono in un  capannone industriale abbandonato, altri duemila sono in una tendopoli. Le condizioni sono terrificanti, e lo sono da anni e anni nonostante le tante denunce. Non esistono servizi igienici, non c'è acqua  potabile, né energia  elettrica (se non piccoli e occasionali generatori  a  benzina) e l'area è circondata da cumuli di spazzatura, dato che non è garantita la raccolta. Per potersi preparare da mangiare e riscaldarsi nei mesi più freddi usano bombole del gas, con evidenti rischi per la sicurezza: a dicembre e gennaio due incendi hanno distrutto una decina di baracche e ci sono stati anche dei feriti.  In questa condizione di disumanità regna il fenomeno del caporalato. Qui i caporali trovano la manovalanza giusta, adatta allo sfruttamento e alle ripercussioni anche fisiche. Secondo alcune testimonianze raccolte proprio in questi giorni nei primi affacci di primavera, il trasporto e l’organizzazione del lavoro sono  gestiti  dai  "caporali",  che vengono  ricompensati  dai  datori  di  lavoro  con l’assunzione e il versamento delle giornate contributive ai  fini  della disoccupazione, il rimborso dei costi del carburante e, talvolta, con un “premio produzione” a fine stagione. Nella Piana non è attiva una  rete  di  trasporto  pubblico  di  cui  possano  beneficiare  tutti  gli  abitanti. Il  78% dei  lavoratori  ha raccontato  di dover versare  ad un intermediario  in media  tre  euro  per  recarsi  sul  luogo  di  lavoro, mentre il contratto collettivo  nazionale prevede  che  per  i  lavoratori “migranti” - accezione che include anche i lavoratori che vivono a più di 40 Km dal luogo di lavoro - il pagamento delle spese di trasporto dal luogo di provenienza a quello di lavoro e relativo ritorno sia a carico dell’azienda. Ma in questa terra vivono due fenomeni. Da un  lato, si sta verificando il ritorno  nelle  campagne di lavoratori  stranieri che da  anni vivevano  e  lavoravano  nel  nord  Italia e che sono rimasti disoccupati dopo la chiusura delle attività produttive; dall’altro, stanno aumentando i nuovi arrivi (+6% rispetto ai dati della stagione 2015 – 16) dei richiedenti asilo. Tutti vivono condizioni lavorative segnate da forme di grave sfruttamento e dalla piaga del caporalato in situazioni precarie e con il rischio di non vedersi rinnovato il documento di soggiorno  in  assenza  di contratto di lavoro. Una delle questioni più discusse e poco affrontata è la salute non tutelata. Questo perché   il personale socio-sanitario è  insufficiente e gli ambulatori del servizio pubblico sono gravemente fatiscenti. In particolare ad esempio, i giovani subsahariani giunti da poco nel nostro Paese numerosi trovano infiniti ostacoli burocratici, cosi come  le donne spesso vittime dello sfruttamento della prostituzione.  I medici in questo ghetto hanno visitato 518 uomini e 35 donne:  una popolazione giovane, con un’età media 30 anni, arrivata in Italia, in circa la metà  dei casi, da meno di tre anni e proveniente principalmente da Mali, Senegal, Ghana, Gambia, Marocco, Costa D'Avorio, Burkina  Faso  e Nigeria. La maggior parte di loro dorme su materassi a terra o direttamente sul pavimento. Il  (79,4%)  ha un  regolare  permesso  di  soggiorno, principalmente per richiesta asilo (39,2%), motivi umanitari (37,8%), protezione sussidiaria (8,7%), lavoro subordinato e  autonomo  (5,9%).  I pazienti che sono  in  Italia  da  più  di  10  anni  (il  7%) sono titolari prevalentemente  di  permessi  di  soggiorno  per  lavoro  subordinato  o  autonomo  e  di  permesso  UE per soggiornanti di lungo periodo (34,5% in entrambi i casi) e in nessun caso della cittadinanza italiana.
Cosa non ha funzionato e cosa continua a non funzionare anche dopo il protocollo dei tre Ministeri chiamati in causa? Diciamo che poco o nulla è stato fatto dalle istituzioni per migliorare le drammatiche condizioni. Un solo dato positivo possiamo testimoniare ed è  quello di un modesto aumento dei contratti di lavoro ma non basta perché è necessario restituire centralità e dotare di risorse adeguate i centri per l’impiego affinché tornino ad essere i luoghi di riferimento per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e accanto a questi le tante associazioni impegnate sul territorio nella difesa dei diritti umani. Inoltre andrebbe avviato un  monitoraggio  delle  aziende e degli  ettari  messi  a  coltivo  introducendo indici di congruità che permettano un controllo, seppur macroscopico, dei dati delle assunzioni. In sostanza potenziare  i  controlli da  parte dell’ispettorato del lavoro anche attraverso l’assunzione di mediatori culturali per permettere l’emersione delle reali modalità di impiego e di retribuzione. E infine creare una rete istituzionale locale di concerto con il mondo dell’associazionismo impegnato per sviluppare azioni di informazione capillare in merito ai diritti e alla normativa sul lavoro che coinvolgano soprattutto i lavoratori che vivono in condizione di estrema precarietà e isolamento.

Maria Pangaro




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