PRIMO PIANO
22/09/2016
Aldo Moro nella memoria dei cattolici, nella politica e nella storia d'Italia
In ricordo del grande statista a 100 anni dalla nascita
A cento anni dalla nascita  e a quasi quaranta  dalla  tragica morte, la non ancora adeguata attenzione storica per la figura politica di Aldo Moro, conferma quella costante difficoltà dell’Italia  di pensare la propria storia. Non può essere il mutamento della logica del sistema politico , con l’eliminazione dei partiti che negli anni del dopoguerra avevano costruito lo sviluppo del Paese, a giustificare tale disattenzione, come se, con la fine di quell’epoca politica si  fosse in obbligo di archiviare anche ogni tentativo di una lettura obbiettiva. Anzi è proprio l’inadeguatezza culturale della politica più recente che dovrebbe indurre a riconsiderare il pensiero e l’opera di grandi  politici e statisti come Aldo Moro. Come a suo tempo  ha rilevato, criticamente, La Fondazione Adenauer,: “di Aldo Moro, in Italia, si continua a scrivere, con sorprendente regolarità. Già sono almeno tre i libri pubblicati sullo statista nel 2009; più di 25 quelli usciti nel 2008, in occasione dei trent’anni dalla sua morte; tra i 7 ai 10 all’anno quelli usciti tra il 2005 e il 2007; quasi 20 i libri pubblicati nel 2004”. “Tutto questo – continua lo scritto della Fondazione -  farebbe pensare che Moro sia oggi al centro di una profonda riflessione storica, politica e culturale. Purtroppo, questi dati traggono in inganno. Gran parte dei libri usciti in questi anni, più che su Moro, concentrano l’attenzione sul “caso Moro”, vale a dire sulle drammatiche circostanze della sua morte e su tutto quello che, nei mesi e negli anni successivi, quelle circostanze determinarono, in termini politici, culturali, simbolici e mediatici “. Questa situazione è, oggi, indirettamente asseverata anche dal fatto che la Fondazione Aldo Moro, che ha meritoriamente  dato vita a più iniziative di studio sul suo pensiero,  nella ricorrenza del centenario della nascita, ha ripresentato al pubblico l’intervista – già apparsa qualche anno fa’ -  di un eminente storico americano, George Mosse, il quale, pur essendo scarsamente a conoscenza  della particolarità della dinamica e delle caratteristiche della storia politica italiana, coglie, come vedremo successivamente, un aspetto profondo dell’intento strategico dello statista pugliese. 
Nessuna personalità della politica italiana ebbe la capacità, per oltre due decenni, di leggere  la realtà e di intravedere le tensioni in atto e le prospettive che si andavano costruendo in Italia e sul piano internazionale.  Con lui, soprattutto,  la politica dei cattolici dimostrò la sua adeguatezza a svolgere il ruolo di guida del Paese. Infatti, mentre De Gasperi costruì la saldatura tra l’Italia prefascista e la ricostruzione democratica postbellica, Moro fu il massimo artefice del successivo cammino dell’Italia politica fino al 1978. La politica di Moro è  ricordata perché legata a due grandi svolte della politica italiana: la nascita del centrosinistra nel 1962 e la  solidarietà nazionale di quel tragico ‘78. Il filo che lega le ragioni dei due passaggi politici presenta analoghe motivazioni. Innanzitutto la democrazia italiana si trovò nella condizione di allargare e consolidare la sua base di fondazione e di adesione che non si poteva restringere alle sole vicende della lotta antifascista ,  ma che implicava la piena saldatura tra popolo e Costituzione e la capacità di raccogliere le sfide sempre nuove che la modernità andava proponendo . A tal fine Moro intese, con il centro sinistra e successivamente con la solidarietà nazionale, realizzare quella che Mosse, con i suoi strumenti di analisi,  descrive come  l’allargamento della «base del sistema di governo parlamentare per cercare di prendere in considerazione la natura della moderna politica di massa»; giungere cioè alla “estensione della ristretta area di consenso che si era stabilita subito dopo la guerra». Lo statista, secondo Mosse, aveva una concezione dello Stato «come un processo, come un qualcosa continuamente in fieri, un organismo sensibile ai mutamenti» il cui unico punto fermo era il principio del governo rappresentativo. Vi era, in questa prospettiva, la preoccupazione di  ottenere quel consenso  al fine di riuscire ad avere  un governo attento alle istanze politiche e sociali espresse dal basso (F. Perfetti, Il Giornale  29. O4 . 2016).
Questa sua intenzione era il frutto di una visione della politica che si era resa evidente sin dall’inizio del suo impegno nel nuovo stato democratico. Alla Costituente Aldo Moro aveva evidenziato  che pur “divisi da diverse intenzioni politiche” , “siamo membri di una comunità” e di conseguenza  “costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di convivenza”. Peraltro, in un discorso pronunciato a Milano il 3 ottobre del 1959 sottolineava come ”lo Stato democratico  è un fenomeno espansivo” e la sua costruzione “è dunque non un punto di arrivo , ma solo un punto di partenza”.  Del resto Moro- e questo è il secondo aspetto delle costanti della politica morotea -  aveva ben compreso che, dopo il fallimento della alleanza di De Gasperi , “fondata su una omogeneità ideale  e su una comune strategia politica , non rimaneva che la politica della  mediazione e della  transazione”. Come sintetizza  G. Baget Bozzo “ dalla politica di principio come principio si passa alla politica che ha per principio il compromesso” (Cattolici e democristiani, Milano 1994, pag 64). Lo aveva detto chiaramente al Congresso di Napoli della DC a gennaio del 1962: “ Le democrazie moderne con una vastissima base popolare, con il necessario raccordo tra potere di vertice e fonte del potere , con il significato sostanziale e non meramente formale  che assumono, non possono fare a meno della iniziativa politica dei partiti  e dell’opera di mediazione  che essi svolgono, per dare efficace ispirazione ed effettiva base di consenso,  in ogni momento allo stato democratico”. Per questa sua visione anticipatrice, in qualche modo, Moro  si mantenne oltre il suo stesso partito. Spesso aveva modo di invitare la DC “ a guardare più lontano”, come disse al Consiglio Nazionale del partito nel febbraio del 1961.
Il riferimento culturale e istituzionale al quale non mancò mai di collegarsi fu Montini, poi Papa Paolo VI, il quale già nel gennaio 1963, come ricorda Andrea Tornielli, in una lettera al Vescovo di Novara, descrive l’avviato esperimento di centrosinistra come “un rischioso, ma inevitabile esperimento politico”, pur aggiungendo che l’apertura a sinistra  non rappresentava  “una flessione  dai principi cattolici, ovvero l’oblio  delle condanne della Chiesa  alla dottrina marxista, ovvero ancora l’acquiescenza  alla forze politiche e sociali  del comunismo o del socialismo” (A. Tornielli, La fragile concordia, Milano 2011, pagg. 164-165 ). Moro, a questo proposito, seppe contrastare le tensioni che avrebbero potuto portare ad una scissione del partito democristiano, anche dando un indirizzo moderato allo stesso centrosinistra e difendendo, come poi fece anche al tempo della solidarietà nazionale, l’unità della DC, trovando anche su tale aspetto la piena condivisione di Paolo VI che, a sua volta, conteneva talune asprezze teologiche che si andavano manifestando  nel Concilio Vaticano II. L’esperienza della solidarietà nazionale merita qualche riflessione oltre la vulgata, interessatamente diffusa dal PCI ed ancora ribadita,  di un “accordo storico”, una netta discontinuità rispetto alla politica precedente. L’obbiettivo - anche in presenza dei tragici avvenimenti del terrorismo ed alla evoluzione internazionale – era sempre quello di consolidare il consenso intorno alle istituzioni democratiche e particolarmente  al governo politico di fronte a gravi emergenze,   che imponeva di archiviare il “vecchio scontro DC-PCI ed alla sua condizione paralizzante”. Ma , come afferma lo stesso  Ciriaco De Mita “ al di là di questo comune obbiettivo , le loro prospettive non apparivano facilmente mediabili  e compatibili, al fine di individuare tra esse  un vero e proprio punto di convergenza”. “ Ad avviso del Presidente della DC – continua l’ex segretario della DC – per creare le condizioni dell’alternanza era necessaria una temporanea collaborazione DC-PCI”, mentre “per il segretario del PCI, invece, la collaborazione , anzi l’alleanza di governo tra democristiani, comunisti e socialisti, doveva protrarsi per un tempo indefinito , così da attuare il progetto di una trasformazione democratica in senso socialista dell’Italia” (Ciriaco De Mita, La storia d’Italia non è finita, Napoli 2012 , pag. 69). Non era eguale il contesto storico rispetto alla scelta basilare  del centro sinistra. In quel caso si trattava di staccare il PSI dal PCI, mentre,  in questo caso,  di staccare – e qualche  elemento già di intravedeva -  il PCI dell’Unione Sovietica. 
All’ambiguità del PCI di Berlinguer si contrapponeva, comunque,  la chiarezza di Moro, così come venne espressa nella  riunione dei gruppi parlamentari , con il suo ultimo discorso – vero testamento politico -  nel quale  affermava gli effettivi capisaldi e limiti dell’intesa per il governo delle astensioni, con i quali otteneva la compattezza del partito  e il suo fermo ruolo di guida . L’accordo era temporaneo e Moro lo definisce  “opportuno, misurato, legato al momento particolare nel quale viviamo”; l’unità del partito ne era il fondamento: “ Quello che è importante è affinare l'anima, delineare meglio la fisionomia, arricchire il patrimonio ideale della Democrazia Cristiana, quello che è importante in questo passaggio (se voi lo vorrete, se sarà possibile obiettivamente, moderato e significativo), è preservare ad ogni costo l'unità della Democrazia Cristiana”. Ribadita nelle ultime parole : “Conserviamo la nostra fisionomia e conserviamo la nostra unità. Chi pensa di far bene dissociando, dividendo le forze, sappia che fa in tal modo il regalo tardivo del sorpasso al Partito Comunista. Sono certo che nessuno di noi lo farà. Che noi procederemo insieme, credo concordando, se è necessario in qualche modo anche discordando, ma con amicizia. Camminiamo insieme perché l'avvenire appartiene in larga misura ancora a noi”. Del resto la stessa scelta di Andreotti– politico distante dalla visione morotea – alla guida del governo , ne dimostrava la provvisorietà. Pochi hanno considerato l’ importanza di questo “ dettaglio” . Le tragiche vicende dei 55 giorni di prigionia e della morte meriterebbero una adeguata riflessione poiché non tutto è stato ancora  portato alla luce. 
In questa sede ci interessa soprattutto porre in evidenza  l’esplicito tentativo di Paolo VI di ottenerne la liberazione con l’infruttuoso  ”Appello agli uomini delle Brigate Rosse”,  limitatamente condiviso dal governo. Papa Montini morirà poco dopo l’assassinio di Moro, quasi a sigillare una fase della politica italiana e da lì  sarà anche un’altra storia tra Chiesa e politica in Italia.   La “iniziativa umanitaria” dei socialisti che Craxi definì “iniziativa costituzionale”, segnerà una differenza tra PCI e PSI non più colmabile.   Il prevalere della “ragion di Stato” del partito della fermezza che aveva radici nella condizione internazionale e  che Moro aveva in un certo senso sfidato, portò all’irrigidimento della politica italiana e la crisi dei due partiti che la interpretarono  : la DC senza una vera guida e priva del suo orizzonte politico;  il PCI,  sulla linea dello Stato, abbandonerà la capacità di ascolto della società avviandosi  alla  svolta della “questione morale” . Di quei giorni ci resta anche la testimonianza di una grande fede cristiana che emerge dalle lettere anche nei momenti più difficili della sua “detenzione”. La crisi fu di una inaudita gravità: basti pensare che In quelle settimane  del ’78 vi fu  la sospensione del Parlamento  sotto la presidenza di Ingrao e qualcuno ha ricordato che ciò non era avvenuto neppure nel ’25, durante la crisi Matteotti. Forse qualche aspetto della crisi istituzionale può avere radici in quelle giornate. La ripresa dell’attività parlamentare  porterà all’approvazione della legge sull’aborto che entra in vigore il 6 giugno, meno di un mese dopo il ritrovamento del corpo di Moro. Anche questo avvenimento ha un suo significato simbolico. Da allora il peso dei cattolici in politica si è ridotto ed è una delle cause della crisi italiana. Manca quell’attenzione verso il nuovo, quella autorevolezza della politica, quella capacità di confronto e di accordo che furono il segno della politica di Aldo Moro.Proprio per tali ragioni il suo pensiero e la sua azione restano un riferimento essenziale.
 
Pietro Giubilo
   
 



Via Luigi Luzzatti 13/a - 00185 ROMA - Tel +39-06-7005110 - Fax +39-06-77260847 - [email protected]
2012 developed by digitalset digitalSet